Alla scuola non basta l'obbligo. Cosa dovrebbe fare Letta
Oltre le polemiche, i dati. L'Italia è virtuosa sulla scuola d’infanzia, ma conta l’accessibilità. Sugli asili nido invece i livelli sono bassi rispetto agli standard europei, con grandi differenze tra nord e sud Italia
Roma. Enrico Letta, nel confronto con gli altri leader al Meeting di Rimini, ha proposto un’estensione dell’obbligo scolastico dall’asilo alla maggiore età: “Noi dobbiamo rendere obbligatoria la scuola di infanzia e allungare l’obbligo scolastico fino alla maturità. Sono due scelte importanti e fondamentali. Così come far sì che la scuola d’infanzia sia qualcosa da dare alle famiglie in maniera gratuita”. Il segretario del Pd è stato interrotto dai fischi, caso unico nel dibattito e rarissimo nella storia del Meeting, da una platea come quella di Comunione e Liberazione da sempre molto attenta e guardinga sui temi dell’autonomia scolastica e formativa.
L’uscita di Letta ha attirato anche le critiche degli altri partiti, a partire da Mara Carfagna di Azione che ha parlato di una proposta “in stile sovietico” perché “tra obbligo d’asilo e diritto all’asilo c’è una grande differenza”. I fischi del Meeting e le reazioni degli avversari politici sono ingenerosi e quantomeno eccessivi, dovuti anche a un errore di comunicazione di Letta che ha calcato troppo l’accento sull’obbligo. Non è un caso che dopo l’episodio di Rimini Letta e gli esponenti del Pd abbiano rilanciato l’idea ribaltando però i termini della questione, mettendo l’obbligatorietà in secondo piano: “La scuola dell’infanzia deve essere universale, gratuita e quindi obbligatoria”.
In ogni caso, al di là degli aspetti di comunicazione, il segretario del Pd ha avuto il merito di mettere la scuola al centro del dibattito politico, proponendo un allargamento dell’obbligo sul modello francese che va da 3 a 18 anni. Ed è pertanto utile fornire qualche chiarimento sulla situazione attuale in Italia.
Sulla scuola dell’infanzia, che va da 3 a 6 anni, quella su cui di più si è concentrato Letta, il quadro non è poi così negativo. Secondo un recente report pubblicato da Openpolis e “Con i bambini”, l’Italia ha una quota di partecipazione all’istruzione pre-primaria dei bambini di 3-5 anni pari al 94,6 per cento (2020), un dato superiore alla media europea e agli Obiettivi di Barcellona (90 per cento) stabiliti dal Consiglio europeo già 20 anni fa. Quell’obiettivo l’anno scorso è stato alzato al 96 per cento entro il 2030, ma è alla portata. C’è da dire che il trend nell’ultimo decennio non è però positivo. L’offerta delle scuole d’infanzia, composta per due terzi da istituti pubblici e un terzo da privati, si è ridotta costantemente e soprattutto tra le scuole private. La chiusura delle scuole, oltre un migliaio, è dovuta prevalentemente alla denatalità, ma anche a una riduzione della quota degli iscritti: secondo uno studio del dipartimento per le Politiche della famiglia della presidenza del Consiglio, la quota di bambini che frequentano la scuola d’infanzia si è contratta dal 95,3 per cento del 2011 all’89,8 per cento del 2017, per poi tornare a risalire negli anni successivi anche grazie a risorse specifiche come il "Fondo nazionale per il sistema integrato 0-6” istituito con la Buona scuola. I bambini che non frequentano le scuole dell’infanzia sono quindi una piccola quota, prevalente nelle famiglie che si trovano in situazione di vulnerabilità: i nuclei, infatti, a rischio di povertà o esclusione sociale presentano percentuali di bambini iscritti di 11 punti percentuali in meno rispetto a chi non è nelle stesse condizioni di disagio.
Perché non imporre l’obbligo, allora? Non è detto che sia di per sé così utile o determinante, anche perché si tratta degli stessi problemi sociali che stanno dietro al dato del 13,1 per cento di abbandono scolastico, molto lontano dall’obiettivo di Barcellona del 9 per cento, che arriva a valle di dieci anni di scuola dell’obbligo. E peraltro è un dato che, a parità di legge sull’obbligatorietà, varia molto da regione a regione: dal circa 20 per cento della Sicilia all’8 per cento dell’Abruzzo. Pertanto di per sé l’obbligo non risolve nulla, se non si interviene sulle condizioni materiali e di contesto. Resta un enunciato su un decreto che non trova corrispondenza nella realtà.
Peraltro, l’obbligo della scuola dell’infanzia da 3 a 6 anni esiste solo in due paesi europei: la Francia di Emmanuel Macron e l’Ungheria di Viktor Orbán. E’ vero che in Francia il tasso di iscrizione dei bambini è pari al 100 per cento, ma Macron ha introdotto l’obbligo a partire dal 2019 e i dati Eurostat mostrano che quel dato era pari al 100 per cento già dal 2013. Di contro l’Ungheria, sebbene sia vigente l’obbligo, ha un tasso di iscrizione più basso dell’Italia. In Europa è molto più diffuso l’obbligo solo per l’ultimo anno dell’educazione pre-primaria (a partire da 5 anni), eppure per questi paesi le percentuali di frequenza non si discostano dai dati dell’Italia.
Ciò su cui invece si dovrebbe fare molto di più sono gli asili nido. In questo caso, a differenza delle scuole dell’infanzia, siamo molto indietro: l’attuale copertura è pari al 26,6 per cento, ben lontana dal 33 per cento che gli obiettivi di Barcellona chiedevano di raggiungere entro il 2010. Tra l’altro con un’enorme eterogeneità territoriale, visto che si va da regioni che nel centronord superano abbondantemente il 30 per cento (e in alcuni casi anche il 40) ad altre del sud che a malapena arrivano al 10 per cento. Con il Pnrr il governo Draghi ha previsto 3,1 miliardi di investimenti, che dovrebbero portare la copertura dal 26 al 45 per cento entro la fine del 2025, ma servirà una notevole capacità per rispettare l’obiettivo e per sostenere la domanda, visto che gli asili nido a differenza delle scuole dell’infanzia sono maggiormente a carico delle famiglie. In sostanza Letta ha fatto bene a sollevare il tema della scuola, che è dirimente per il futuro del paese, ma ha probabilmente sbagliato a mettere l’accento sull’obbligo più che sull’accesso e a concentrarsi sulla scuola dell’infanzia più che sugli asili nido.