Perché le soluzioni europee della Meloni sulla crisi energetica sono tutte sbagliate
Modificare il Pnrr è impossibile, al momento. Intervenire sui fondi complementari è proibitivo. La via più agevola è quella del RePowerEu, che solo apparentemente è più lunga di quelle evocate dalla leader di FdI. Che rischia di indebolire la trattativa del governo Draghi sul price cap
Tutto sta a conoscere le mappe, o quantomeno a scegliersi un buon capocordata. C’è questo famoso sketch in cui Aldo va nel panico nel tentativo di seguire le istruzioni di Giovanni, che lo esorta a scalare lo sperone di roccia sfruttando “la sporgenza a forma di zoccolo di gnu” e “la rientranza a forma di vertebra di moffetta”, salvo vedere arrivare Giacomo, che senza alcuna fatica raggiunge la vetta: “Come ho fatto? C’era il sentiero”. Ecco, le strade ipotizzate da Giorgia Meloni per trovare in Europa la soluzioni alla crisi energetica sono una trasposizione della gag.
Tutto era iniziato con annunci bellicosi. “Al Pnrr serve una revisione che tenga conto della crisi energetica”, diceva la Meloni un mese fa, definendo “lunari” gli obiettivi previsti dal Recovery in tema di transizione ambientale. “Se non fosse che l’articolo 5 del Piano prevede esplicitamente che almeno il 37 per cento delle risorse stanziate vadano a finanziare il cosiddetto Green deal, e dunque non si può utilizzare quei soldi nel settore delle fonti fossili”, spiega Enzo Amendola, sottosegretario dem agli Affari europei.
Che fare, allora? Sul programma di FdI, qualcuno ha pensato bene di inserire una proposta più sfumata: rimodulare, cioè, “le risorse interamente italiane del Fondo complementare”. Si tratta di 30 miliardi destinati a 24 diversi programmi, e sono stati stanziati proprio nell’ottica di potenziare il Pnrr anche con progetti che non rientravano nei parametri del Next Generation Eu. Si potrebbe, dunque, dirottare una parte di quei fondi, per lo più di competenza dei ministeri dei Trasporti e dello Sviluppo, verso l’emergenza energetica. “Ma io aspetto ancora – ripete il ministro Enrico Giovannini – che chi sostiene questa tesi venga a dirmi quale progetto dobbiamo sospendere”. Il che poi significherebbe, però, spiegare anche alle imprese del settore, e agli amministratori locali coinvolti, perché la sostituzione di quel certo binario è stata fermata, l’elettrificazione della banchina del porto lasciata a metà, il rinnovo degli autobus comunali annullato. Inoltre, il Fondo complementare, istituito con un decreto del luglio 2021, ha già sostenuto l’avvio di progetti e la pubblicazioni di bandi: 47 provvedimenti sono stati avviati l’anno scorso, altri 94 sono previsti per la fine del 2022. Introdurre modifiche che non inceppino la macchina, insomma, non è facile.
Resta allora l’altra idea, messa pure questa nero su bianco sul programma elettorale di FdI. Consiste nel “proporre alla Commissione di operare modifiche specifiche nei limiti di quanto stabilito dall’art. 21 del Regolamento europeo sul Ngeu”. Ma resta il fatto che, al momento, nessuna modifica potrebbe comunque violare il principio del 37 per cento dei fondi in favore della transizione ambientale. Certo, si potrebbe pretendere da Bruxelles un sussulto di realismo, che induca Ursula von der Leyen a rivedere l’assetto del Recovery alla luce della crisi in corso. E però – e qui sta il punto principale – questo ravvedimento, nella Commissione, c’è già stato, se è vero che ha approvato lo strumento del RePowerEu, che è a tutti gli effetti un capitolo aggiuntivo del Recovery destinato appunto alla crisi energetica. Si tratta di un fondo che, nel complesso, stanzierà più di 300 miliardi da destinare ai vari stati membri che lanceranno programmi in sintonia con le linee guida: diversificazione delle fonti, affrancamento dalla dipendenza russa, potenziamento delle fonti rinnovabili. A finanziare il fondo saranno anzitutto i prestiti rimasti inutilizzati del Pnrr. E, senza grande clamore, il governo Draghi ha ottenuto che Bruxelles inserisse una norma che consenta di superare quel tetto: proprio a favore dell’Italia che, insieme alla Grecia, è l’unico ad aver accettato tutti i prestiti previsti dal Recovery.
Certo, il processo non sarà rapido. Il Parlamento europeo prima, e il Consiglio poi, dovranno approvare il RePower. Se tutto va bene, il sistema verrà attivato all’inizio del 2023. Tardi? Può darsi. Di certo, però, avviare una trattativa con la Commissione per modificare il Pnrr impiegherebbe più tempo. Almeno tre mesi è la durata stimata per l’autorizzazione da parte di Bruxelles ad avviare i negoziati. Poi va cambiato il piano, infine approvato. Il tutto, tenendo conto che di fatto entro agosto del 2023 i soldi del Pnrr andranno tutti impegnati, perché da lì in poi gli obiettivi riguarderanno solo l’attuazione dei progetti.
Senza contare, infine, che l’intervento di gran lunga più incisivo per ridurre il costo del gas starebbe nella riforma del mercato energetico europeo: decoupling e price cap sono le vere variabili in gioco, e il loro varo dipende da una trattativa difficile in cui il governo italiano ha trovato solo ora sponde significative dalla Germania. Il modo peggiore per sostenere la solidità della posizione italiana sarebbe quello di mostrarsi incerti nelle realizzazione del Pnrr, che è, come ripete Draghi, “la sfida su cui tutti in Europa misurano la nostra credibilità”.