Foto di Alessandro Di Meo, via Ansa 

l'analisi

Gli italiani hanno perso la fiducia nel voto. Si può ritrovare ricordando gli anni '60

Michele Brambilla

Sono ormai tre elezioni di fila che i cittadini di questo paese o non vanno alle urne o danno la preferenza a chi dice che fa tutto schifo. Ma un popolo senza speranza non ha futuro. Per ritrovarla bisogna pensare all’Italia del passato, che sorrideva e guardava avanti
 

E se invece fosse colpa degli italiani? Di noi, di tutti noi italiani? Cioè: e se le cose andassero male non solo per responsabilità dei governanti, ma anche dei governati? Se insomma il problema stesse in tutti noi, che non ci va bene niente e non ci fidiamo più di niente e di nessuno, tanto che ormai sono tre elezioni di fila che vince il partito del vaffanculo? Perché i partiti del vaffanculo ci sono sempre stati, dall’Uomo Qualunque di Giannini in poi, anche il Msi in certi periodi lo è stato, ma erano partiti che non arrivavano mai al dieci per cento.

 

Qui invece sono appunto tre elezioni di fila che gli italiani o non vanno a votare o votano chi dice che fa tutto schifo. Perché nel 2013 quello di Grillo risultò il primo partito; nel 2018 pure e addirittura andò al governo, alleato con un partito per certi versi dall’idem sentire, la Lega dei no euro, dei Borghi e dei Bagnai; e ora vincerà la Meloni che magari si offende se diciamo che anche il suo è un partito del vaffanculo, e però ci sarà un motivo se era l’unico all’opposizione di Draghi e se la gente, come pare, lo voterà. Saran mica tutti fascisti.

 

È la classe politica il problema del paese? Oppure il male, come ha scritto Aldo Cazzullo qualche giorno fa sul Corriere, è la mancanza di fiducia nel futuro? Si fanno pochi figli perché non si ha fiducia nel futuro. Non si investe perché non si ha fiducia nel futuro. Non si spende e al contrario si risparmia, si mette via, perché si dà per scontato che arriveranno tempi sempre più grami. Quante volte si sente dire: “Questo paese è finito”, “I miei figli voglio mandarli all’estero”, “Questa è la prima generazione destinata a stare peggio della precedente”. Vox populi, ma non vox Dei.

 

Perché non c’entra il Covid e non c’entra neppure la guerra di Putin e il caro bollette, che pure certo, è pesantissimo. L’Italia, anzi il popolo italiano, era già stanco, sfibrato, arrabbiato nel 2013 e nel 2018, come abbiamo visto. Ma anche prima, molto prima. Se ci guardiamo indietro, per trovare un’Italia convinta che il futuro sarebbe stato migliore del passato e pure del presente dobbiamo tornare agli anni Sessanta. Sono quelli gli ultimi anni in cui guardavamo avanti. Era un’Italia che sorrideva. Lo vedi nella passione politica di allora, lo vedi nelle pubblicità, lo vedi nella musica leggera e nei film di quei tempi. Perfino l’Alberto Sordi de “Il vedovo”, il fallito cretinetti che cerca di ammazzare la moglie per ereditare, e quello de “Il boom” che vuole vendere un occhio per ripianare i debiti, è sì un disgraziato, ma un disgraziato che non si rassegna, che vuole riscattarsi, investire, andare avanti, stare al passo con i tempi. Che erano tempi in cui non è che fossimo più benestanti di adesso, anzi: ma tempi in cui si cresceva e si voleva crescere ancora di più.

 

Gli anni Sessanta. Anni beati, come li chiamò Carlo Castellaneta in romanzo del 1979, perché già nel 1979 ci si guardava indietro con la nostalgia, il rimpianto, il senso della fine. I beati anni Sessanta. Che pure cominciarono con un lutto, anzi con un lutto nazionale, anzi con il lutto nazionale. Il 2 gennaio 1960 muore Fausto Coppi, il Campionissimo. Eppure perfino la sua morte segna un nuovo inizio. Con la sua faccia scavata, con i suoi occhi sporgenti, con le sue braccia ossute, con la sua maglia sporca di fango, con i copertoni delle biciclette sulle sue spalle mentre faticava su strade incerte o sterrate, Coppi era l’icona dell’Italia ancora grama del dopoguerra, ancora povera. Coppi veniva dalle vacche magre e infatti sembrava un vecchio, come Bartali: erano ragazzi ma sembravano dei vecchi, come tutti i ciclisti e anche i calciatori degli anni Cinquanta. Provate a guardare le foto del Milan del Gre-No-Li o dell’Inter di Benito Lorenzi detto Veleno o ancora prima quelle del Grande Torino, provate a guardare quelle facce e dite se sembrano ragazzi di venticinque o trent’anni, oppure gli zii di tanti cinquantenni di oggi.

 

Muore Coppi e l’immagine dell’Italia che sta finalmente affrancandosi dalla miseria diventa, pochi mesi dopo, quella di Livio Berruti che vince la medaglia d’oro dei 200 metri piani alle Olimpiadi di Roma: lui è mingherlino e porta perfino gli occhiali, è l’italiano malnutrito di un’Italia dove si mangia la carne due volte all’anno, ma batte i rivali americani grandi e grossi, e allora ci sentiamo finalmente usciti dalla vergogna della guerra, riscattati. Berruti che taglia il traguardo davanti agli stangoni statunitensi vendica il cappotto risvoltato di De Gasperi al tavolo in cui sedettero vincitori e vinti. “Chissà se è un’impressione”, ha scritto una volta Enzo Biagi, “ma guardando, per esempio, l’immagine dell’inaugurazione, il 25 agosto, dei Giochi della XVII Olimpiade a Roma o quella di  Livio Berruti che trionfa nei duecento, sembra che fossimo tutti più felici. O più sereni, forse speranzosi”.

 

“Guardando, per esempio, quelle immagini”. Ma anche guardando i Caroselli, guardando la commedia all’italiana, guardando il varietà dell’unico canale che esisteva, il Nazionale, con Tognazzi, Vianello, Walter Chiari, Mina, le Kessler. Eravamo più felici? Non so. Ma di certo più allegri. E di sicuro più speranzosi. C’è speranza perfino in un film tragico come “Il sorpasso”, con Gassman che balla guarda come dondolo e non riconosce sua figlia. È una storia triste, ma in un’Italia che corre.

C’è speranza nella politica, nel centrosinistra e nelle nuove convergenze mondiali, JF Kennedy e Kruscev, c’è speranza in Papa Giovanni e insomma c’è speranza che mai più la guerra.

 

Perfino nel calcio siamo fra i vincenti: le milanesi di Sarti Burgnich Facchetti e di Cudicini Anquilletti Schnellinger sono campioni d’Europa e del mondo, la nazionale fa flop ai Mondiali del 1966 ma è un flop proprio perché le aspettative, le speranze erano alte, e poi comunque si vincono gli Europei del 1968. Anche l’anno scorso abbiamo vinto gli Europei, e c’era Draghi al governo che era lui pure una speranza: ma abbiamo smontato tutto in fretta e ora voteremo appunto quelli che dicevano che le cose andavano male anche con i rigori di Wembley e con un premier rispettato e stimato e ascoltato all’estero come mai ci era capitato. 

 

Le immagini felici delle Olimpiadi a Roma del 1960, diceva Biagi: oggi le Olimpiadi a Roma non ci proviamo neanche più a farle, perché invece di pensare a quanto di bello e di buono ci potrebbero portare pensiamo al marcio che sicuramente ne verrebbe, agli appalti e alle tangenti e alle infiltrazioni della mafia, e a Mafia Capitale e alla Trattativa. Meglio non far nulla, piuttosto che rischiare. Meglio stare fermi, che non si sa mai. E questo siamo noi italiani di oggi. Non i politici: noi italiani.
Quando siamo cambiati? Troppo facile dire che già il Sessantotto ci aveva fatto capire che non eran tutte rose e fiori, che un cambiamento ci voleva, che una generazione urlava qualcosa che aveva dentro, e che era un desiderio di un qualcosa di più, perché non bastano la lavatrice la televisione e l’auto presa a rate e le vacanze al mare per tutti. Non basta neanche il posto fisso. Neanche la carriera. Una generazione voleva di più, ed era giusto che lo volesse. Ma invece che una rivoluzione gioiosa, è finita a schifio. 

 

Quando siamo cambiati? Troppo facile dire il 1969. L’allunaggio con Tito Stagno che grida “hanno toccato” è il culmine, l’apice dei beati anni Sessanta. La strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969, ne segna la fine. Le immagini in bianco e nero dei funerali delle vittime, celebrati dal cardinale Colombo in piazza del Duomo, sono il sipario sul decennio più bello della nostra Repubblica.

Le bombe. Le Brigate Rosse. Gli anni di piombo. C’era qualcosa di affascinante pure in quei quadri grigi, le luci gialle e i cortei cantati da Alberto Fortis nella sua “Milano e Vincenzo”. Ma era un fascino tragico, e soprattutto non era spensierato. Non era più l’Italia degli anni Sessanta. Il futuro faceva paura.

 

Gli anni Ottanta sono stati certo migliori. Non ne potevamo più del privato che è politico, e ci siamo buttati nel riflusso. I paninari al posto dei militanti. I Moncler al posto dell’Eskimo. La Milano da bere. Il craxismo e la nave che va. Le tv di Berlusconi e il “Drive In”, la Rai e “Quelli della notte”. Eravamo tornati a ridere perdio, e anche a star meglio. Ma non avevamo più il candore degli anni Sessanta. Eravamo già disillusi. Era un mondo arrivato al capolinea, una Repubblica arrivata al capolinea.
Mani Pulite l’avrebbe spazzata via. Ma sbaglia chi pensa che le manette di Di Pietro abbiano spazzato via, appunto, solo il pentapartito e la Prima Repubblica. Hanno spazzato via, e definitivamente, quel che restava della fiducia di un popolo. Si è voluto far credere che i politici fossero tutti ladri, che la politica stessa fosse un cancro, che per vincere un appalto ci volesse sempre una tangente, che per trovare un lavoro ci volesse sempre una raccomandazione, che le istituzioni sono sempre e comunque inquinate.

 

Si è voluto far credere questo e tutti noi lo abbiamo voluto volentieri credere, perché rappresentava per ciascuno di noi un formidabile alibi. È quello il tempo in cui si comincia a parlare di un fantomatico “loro” che condiziona tutto. “Hanno detto così, ma non è vero”, “Ci vogliono far credere”, “Hanno deciso tutto fra di loro”, e così via. Ma “hanno” chi? “Vogliono” chi? Ecco l’alibi: io non ce la faccio perché c’è qualcuno che mi frega.
L’alibi. Tangentopoli. I politici entravano in galera e nelle strade c’erano le fiaccolate degli onesti, tutta gente che non aveva mai chiamato un amico per saltare una fila in ospedale, tutta gente che aveva sempre pagato tutte le tasse e banalmente non s’era mai fatta togliere una multa, tutta gente immacolata.

 

L’ho raccontato tante volte ma lo ripeto: seguivo l’inchiesta Mani Pulite per il Corriere della Sera e ricordo un collega che, compilando la nota spese, la gonfiò con ricevute tarocche fattesi fare da qualche tassista e fattesi consegnare dai camerieri dei ristoranti, ricevute raccolte fra quelle che gli stranieri lasciavano sul tavolo. Era, quel collega, uno dei manettari più scatenati. Gli dissi ma come, denunci la corruzione e poi rubi anche tu? Ma che c’entra, mi rispose: questi non sono mica soldi pubblici.

 

L’alibi. L’autoassoluzione. E il giornalismo del “mala” e dell’“opoli”. Tutto cominciava con “mala” o finiva con “opoli”. Malasanità. Malagiustizia. Malamministrazione. Tangentopoli. Concorsopoli, Calciopoli. Affittopoli. È grottesco che Beppe Grillo abbia fatto la guerra ai giornali: senza di loro, non avrebbe mai vinto le elezioni. Ed è pure lui figlio della tentazione dell’uomo solo al comando, che non è più Fausto Coppi, ma di volta in volta un uomo o una donna della Provvidenza che spazza via dal simbolo elettorale perfino il nome del partito per mettere il suo.

 

E certo che c’era la corruzione. Ma c’è un’altra corruzione, quella dell’animo di un popolo. Una corruzione che ha fatto più danni delle mazzette. Un popolo senza fiducia non ha futuro. Nessuno di noi può vivere senza  fidarsi: dell’automobilista che si ferma al rosso quando attraversiamo la strada; del barista che ci serve un caffè; dell’infermiere che ci fa un’iniezione; della baby sitter cui affidiamo nostro figlio. Ogni giornata è possibile solo per un susseguirsi di infiniti atti di fede.

 

Non c’è da fidarsi in chi ci governa? Può darsi. Ma sono l’espressione di noi italiani di oggi. Un popolo il cui guaio più grosso ce l’ha dentro di sé. Anche con mille ragioni, ma dentro di sé. “Non ho mai visto un pessimista combinare qualcosa di buono”, diceva il Cavaliere ai tempi d’oro, e insomma, qualcosa di giusto l’avrà pur detta anche lui.
Eppure ci sono, ci devono essere italiani che nonostante tutto hanno fatto una scommessa sul futuro. Li vorremmo raccontare. Li andremo a cercare.

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