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Il ritratto

L'ora dell'agenda Tremonti. Come sarà la prossima vita al fianco di Giorgia Meloni?

Stefano Cingolani

Dal Manifesto ad Atreju, le sue intuizioni lo hanno sempre condotto un po’ qua e un po’ là. Euroscettico, antimercatista, nemico della globalizzazione. E’ l’anti Draghi dalle nove vite. Un ritratto per capire le sue prossime mosse

A Lorenzago di Cadore abbondano i Tremonti: sono stati sindaci, professionisti, mercanti, l’albergo principale si chiama Hotel Tremonti. E poi c’è lui, Giulio Carlo Danilo, erede della famiglia che possedeva boschi e vendeva il legname alla Serenissima affinché fosse la regina dei mari, intellettuale inquieto e politico multiforme, consapevole della propria intelligenza che spesso gli ha procurato tensioni anche con gli amici.

 

Già liberal-radicale irriverente, tributarista di successo, saggista brillante e instancabile, si potrebbe dire che durante la sua lunga carriera si è spostato sempre più, dal Manifesto ad Atreju it’s a long, long way; tuttavia è impossibile rappresentarlo in equilibrio su una linea retta. Le sue intuizioni lo hanno sempre condotto un po’ di qua e un po’ di là. Le critiche all’Unione europea nascono a sinistra e finiscono a destra. Come si fa a salvare il welfare state se lo stato nazionale viene soppiantato da un super-stato sovranazionale, e come proteggere l’occupazione quando i capitali si rifugiano in Germania, per non parlare del Lussemburgo? Con la globalizzazione, poi, la lotta di classe su scala mondiale penalizza gli operai italiani di fronte alla concorrenza sleale di quelli cinesi. Così, dopo la “rivoluzione comunista” e la “controrivoluzione liberista”, arriva la “restaurazione sovranista”. Tremonti ama le contraddizioni.

Euroscettico d’antan, propone con dieci anni d’anticipo gli eurobond che servono non a uscire dall’unione monetaria, ma a rafforzarla. Antimercatista, trasforma la Cassa depositi e prestiti in società per azioni al fine di rispettare i parametri di Maastricht. Nemico giurato della turbofinanza, diventa il ministro della “finanza creativa”. Avversario dell’austerità in salsa germanica, taglia la spesa pubblica corrente. E ancora, l’ipercritico della globalizzazione, alla quale preferisce la coppia francese mondo-nazione, resta nel bozzolo dei globalisti americani. Viene travolto dalla crisi del debito sovrano, eppure l’aveva vista arrivare, a differenza di Silvio Berlusconi.

Giorgia Meloni, alla ricerca di cervelli fini, gli offre per ora un seggio alla Camera, ma può bastare? Palazzo Sella sarebbe un eterno ritorno, c’è già stato quattro volte; potrebbe andare alla Farnesina, sognando magari palazzo Chigi. Se Salvini s’impuntasse, se il risultato delle urne non fosse così chiaro come mostrano i sondaggi, si aprirebbero spazi che oggi sembrano poco probabili, anche se contro Tremonti resta il veto di Berlusconi. Secondo alcuni in realtà vuol fare la riserva della Repubblica, la sinistra ne è piena, la destra no. Ecco perché più che la carica conta oggi l’agenda Tremonti. Il dubbio è se si sposa davvero con l’agenda Meloni. Fino a che punto Giorgia che chiede consigli a Mario Draghi è disposta a sostenere Giulio da sempre l’anti Draghi? Per cercare una risposta che guardi al prossimo futuro dobbiamo fare qualche passo indietro; più che registrare i roboanti proclami elettorali, scartabelliamo dunque le voluminose agende delle esperienze passate.


1 - Il lib lab 

 Le origini e l’infanzia sono a Lorenzago con il rito del campanotto natalizio e la casa, Villa Angiola, all’ingresso del borgo. Tra i boschi in un angolo oggi venerato passava le vacanze estive Giovanni Paolo II. Ma Giulio Tremonti nasce a Sondrio il 18 agosto 1947 da padre farmacista cadorino e madre originaria di Benevento, studia a Pavia dove poi insegna, entra nelle grazie di Franco Reviglio, conte della Veneria e socialista, che sarà ministro delle Finanze nel governo Cossiga (1979-1981). Con lui c’è un trust di giovani cervelli come Domenico Siniscalco, Franco Bernabè, Alberto Meomartini, Mario Baldassarri, conosciuti come i Reviglio boys. I ruggenti anni Ottanta lo hanno segnato. Consigliere di Rino Formica, amico di Gianni De Michelis, insomma una frequentazione socialista consolidata. Ma non si iscrive al partito, anzi, quando comincia il suo percorso politico aderisce al Patto Segni e si batte per un sistema elettorale maggioritario. Scrive sui giornali, anche sul Manifesto allora diretto da Valentino Parlato. Al Corriere della Sera viene chiamato da Piero Ostellino nel 1984, intanto pubblica i primi saggi brillanti, ma più concreti dei successivi, mettendo a punto la sua politica fiscale: dalle persone alle cose, meno Irpef più Iva. Il contrario di quel che pensa la Lega protettrice delle partite Iva. Molta acqua, però, è corsa sotto i ponti.


2 - Il referendario

Crolla la lira, crolla la Prima Repubblica, nasce la voglia di cambiamento del sistema politico e Mariotto Segni, già parlamentare democristiano, figlio dell’ex presidente della Repubblica Antonio, fonda un movimento referendario per passare all’uninominale. La consultazione si svolge nel 1991, ma la Corte costituzionale la limita ai voti di preferenza da tre a uno. In ogni caso è un successo e Segni diventa “l’uomo che ha l‘Italia in mano”, così scrivono i giornali alla ricerca di nuovi eroi dopo la caduta dei vecchi idoli. Tremonti è con lui e ci resterà fino al 1994 quando suonano le sirene di Silvio Berlusconi che aveva tentato di sedurre anche Segni. La rottura avviene proprio sul Cavaliere verso il quale Mariotto era considerato “troppo intransigente”.

Ma la rivoluzione era già interrotta come scrisse lo stesso Segni. Il primo governo di centrodestra composto da Forza Italia, Lega Nord, Alleanza Nazionale e Centro democratico, rimane in carica appena otto mesi durante i quali Tremonti è il ministro delle Finanze che dovrebbe tagliare le tasse e cerca di placare gli eroici furori di Umberto Bossi. Ma il tempo è tiranno. Il 21 novembre arriva un avviso a comparire per Berlusconi in seguito a un’indagine riguardante Fininvest. Il giorno dopo Il Corriere della Sera in prima pagina scrive che il capo del governo era indagato per corruzione. A dicembre la Lega ritira il suo appoggio, tre giorni prima di Natale Berlusconi si dimette. Riprenderà la guida del governo solo nel 2001, nel frattempo Tremonti si consolida in Forza Italia e rafforza la sua amicizia con Bossi che sarà a un tempo preziosa e scomoda dentro la Casa della Libertà. Lorenzago torna protagonista nel 2003 quando i “quattro saggi” si chiusero in una baita tra le montagne. Roberto Calderoli (Lega), Domenico Nania (An), Andrea Pastore (FI) e Francesco D’Onofrio (Udc) non uscirono per tre giorni allo scopo di riscrivere la seconda parte della Costituzione. Alla fine, per dirla con Calderoli, “quattro topolini partorirono una montagna”: una bozza di 21 pagine per lanciare quella devolution che sarebbe stata affossata, due anni dopo, da un referendum costituzionale.


3 - Il colbertista

Rientrato a Palazzo Sella da super ministro che accorpa Tesoro, Finanze e Bilancio, Tremonti denuncia subito dagli schermi tv il buco lasciato dal centrosinistra proprio mentre sta per partire l’euro. Tappare la falla diventa la priorità delle priorità, non ridurre subito le tasse come Berlusconi aveva promesso firmando davanti a Bruno Vespa il Patto con gli italiani. Tremonti mostra di conoscere bene la differenza tra le parole e le cose. Nei primi cento giorni, comunque, sparisce l’imposta di successione che non tocca esattamente i più poveri. Il ministro introduce la legge obiettivo per le grandi opere e ripropone una versione bis della Legge Tremonti per detassare gli utili reinvestiti. Ma l’11 settembre cala come un’ombra oscura anche sull’economia italiana. L’agenda andrebbe riscritta o, quanto meno, ampiamente rimaneggiata. Primum vivere. Arriva una raffica di condoni e la vendita degli immobili pubblici facendo ricorso alle cartolarizzazioni, alchimia che trasforma un bene indiviso in un titolo cartaceo. Aiutato da Siniscalco, nominato direttore generale, e da Vittorio Grilli, ragioniere generale dello stato, mette in atto quella che i suoi detrattori chiamano “finanza creativa” grazie alla quale non vengono sforati i parametri europei sul deficit pubblico. Troppe misure una tantum, accusano la Bce, il Fondo monetario e la Banca d’Italia. Il ministro contrattacca e non lesina critiche sia al governatore Antonio Fazio sia alla burocrazia di Bruxelles: prende di mira l’euro che, senza la banconota di carta, avrebbe favorito l’inflazione e i regolamenti asfissianti che diventano una gabbia insopportabile dopo l’arrivo della Cina nel club del libero scambio.

Il conflitto con Fazio caratterizza anche l’ultimo anno di Tremonti nel gabinetto Berlusconi 2. A dividerli non è solo una diversa visione, ma anche l’obiettivo di riorganizzare la vigilanza sui mercati, in mano a Bankitalia, soprattutto dopo il fallimento della Cirio e della Parmalat. Tutti ricordano che il ministro teneva sulla sua scrivania un barattolo di pelati Cirio come “memento mori”. Si apre anche un fronte conflittuale con An e Udc. Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini vogliono una cabina di regia per ridimensionare il troppo potente ministro il quale nel frattempo compie un’altra mossa strategica, cambiando la forma legale della Cassa depositi e prestiti. Il decreto legge 30 settembre 2003 n. 269 la trasforma in società per azioni, facendo entrare nell’azionariato ben 65 delle criticatissime fondazioni bancarie alle quali vengono assegnate azioni privilegiate pari al 30 per cento del capitale sociale. Dall’avversione all’alleanza è un turnaround notevole che consente di scorporare dal debito pubblico le passività della Cdp cioè la raccolta postale e le obbligazioni, alleggerendo il fardello di circa 360 miliardi di euro. L’operazione ha un altro padre, Giuseppe Guzzetti, che guida la più grande delle fondazioni, quella che fa capo alla Cariplo azionista rilevante della Banca Intesa di Giovanni Bazoli. Si salda allora un rapporto che resterà solido nonostante la diversa sintonia politica (Guzzetti e Bazoli sono cattolici democratici vicini a Romano Prodi e al centrosinistra).

E’ il momento in cui Tremonti stringe legami trasversali: dal banchiere Ettore Gotti Tedeschi vicino all’Opus Dei a Fabrizio Palenzona e Massimo Ponzellini, cugino del leghista Giancarlo Giorgetti, ma che era stato allievo e assistente di Prodi al ministero dell’Industria. Una rete importante, ma non sufficiente di fronte all’offensiva di Fini e Casini. Lo scontro finale avviene sul fisco. Il progetto prevede di accorpare le aliquote riducendole a due: 23 e 33 per cento. Per An e Udc ciò aiuta solo i redditi alti. Tremonti vorrebbe portare il provvedimento in Consiglio dei ministri insieme alla manovra richiesta da Bruxelles per centrare i parametri europei. Fini e Casini lo bloccano e il ministro si dimette due giorni prima dell’Ecofin. Al suo posto va Siniscalco che dura meno di un anno. E Berlusconi richiama Tremonti fino alle elezioni del 2006 vinte da Prodi.


4 - Cincinnato no global

La sconfitta apre un periodo denso di libri con un filo conduttore comune: la critica implacabile alla globalizzazione, alla Cina, allo scambio ineguale sancito dall’Omc dove nascono tutti i nostri guai. L’ingresso di Pechino nell’Organizzazione mondiale del commercio è per Tremonti il peccato capitale che porta al declino, se non al suicidio dell’Occidente. Il professore ha capito prima di molti altri l’impatto dirompente della sfida cinese sugli equilibri industriali, economici e politici. Il politico attacca l’ingenuità del pensiero occidentale secondo il quale il capitalismo avrebbe esportato automaticamente anche la democrazia. Denuncia il mercatismo, “ultima ideologia del Novecento” che ha rimpiazzato sia il social-comunismo sia il liberismo classico. Quindi è giunta l’ora di un pensiero nuovo dal sapore antico. La destra comincia ad amarlo, è ospite fisso delle serate di Atreju organizzate fin dal 1998 dai virgulti del vecchio Fronte della gioventù (via via Azione giovani, Giovane Italia, Gioventù Nazionale) guidati dalla giovane Giorgia Meloni. Il “fantasma della povertà” che aveva evocato nel 1995 in un libro scritto insieme a Edward Luttwak e Carlo Pelanda, si materializza mentre negli Stati Uniti matura la crisi provocata dalla turbofinanza. La tempesta d’avvicina e quando scoppia, Tremonti è di nuovo super ministro.


5 - My name is Bond, Eurobond 

Berlusconi vince nel 2008, il Popolo della Libertà ha inglobato sia An sia gli ex democristiani, poi c’è la Lega, infine il piccolo Movimento per le autonomie. Giorgia Meloni fa il suo debutto occupandosi della gioventù; Tremonti all’Economia e il leghista Roberto Maroni sono i ministri forti, mentre Bossi presidia il federalismo. La crisi finanziaria è già scoppiata e a settembre salta la Lehman Brothers, crollano le grandi banche europee e i colossi a stelle e strisce. La Cina adotta un piano di nuovi investimenti pubblici pari a sette punti percentuali di pil. Cifre analoghe vengono impegnate in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

L’Italia è cauta: le misure per stabilizzare il ciclo sono pari appena allo 0,3 per cento del prodotto lordo. Il ministro le giustifica con l’enorme peso del debito pubblico e i lacci stretti dal patto di stabilità. Finanza sana non allegra, la tanto detestata austerità diventa inevitabile. Tremonti ricorre a una misura ardita che gli costerà un’ondata di critiche: decide di attaccare in modo orizzontale la spesa corrente senza risparmiare nessun ministero. Sono gli odiatissimi tagli lineari, gli unici che abbiano funzionato davvero: dal 2009 al 2010 si riduce la spesa pubblica in rapporto al pil, anche quella corrente. Non era accaduto nemmeno negli anni Novanta quando era scesa la spesa totale, fermando soprattutto gli investimenti. “Mettere lo stato sopra la finanza e la finanza sotto lo stato”, è una delle lapidarie sentenze tremontiane, ma quella volta l’una e l’altra sono andate a braccetto. Per addomesticare il demone della speculazione Tremonti lancia una proposta che maturerà solo dieci anni dopo: l’introduzione sul mercato di titoli garantiti dall’Unione europea, i cosiddetti eurobond, senza i quali sarà la catastrofe, profetizza mentre la crisi finanziaria si trasferisce ai debiti sovrani, prima la Grecia, poi la Spagna, infine l’Italia. Sostiene la proposta Jean-Claude Juncker, allora alla guida dell’Eurogruppo, che nel 2014 diventerà il primo presidente eletto della Commissione. Se ne parla a lungo, non decollano mai fino alla pandemia nel 2021. Intanto, l’Italia è sull’orlo del default.


6 - Monti non Tremonti

E’ venerdì 5 agosto 2011, il giorno prima s’è riunito il consiglio della Banca centrale europea. C’è tensione sui mercati, la distanza tra il Btp a dieci anni e il Bund tedesco viaggia sui 350 punti base, ma non tira aria peggiore del solito. La commissione di Bruxelles, del resto, ha dato il suo benestare alla legge di Stabilità per il prossimo triennio. Così, quando il ministro dell’Economia riceve una telefonata da Palazzo Chigi, pensa che sia per un saluto e si tranquillizza, visto che i rapporti con Berlusconi da tempo non sono sereni. Il presidente del Consiglio lo convoca in fretta senza dirgli il perché. Nell’ufficio trova Gianni Letta e Renato Brunetta. Il capo del governo gli porge un foglio con l’intestazione della Banca centrale europea. Tremonti sbianca, comincia a leggere e, giunto al punto due comma a) fa un salto: “L’obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell’1 per cento nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa”, recita a voce alta. Arriva fino alle firme in calce di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet, poi aggiunge: “La data è sbagliata”. “Ma no è giusta, oggi è il 5”, replica Berlusconi. “Non intendo quella, ma la data per il pareggio del bilancio: è anticipata di un anno”. I cento giorni che hanno fatto cadere la stella del Cavaliere aprendo un fossato incolmabile con Tremonti cominciano proprio allora. Sono mesi drammatici, di tensioni e sospetti. Il primo sospetto è che la lettera, scritta in Banca d’Italia, fosse stata sollecitata dal governo stesso per coprirsi le spalle di fronte alla ormai inevitabile necessità di prendere misure impopolari. Il ministro dell’Economia si sente delegittimato e interpreta la missiva come una sconfessione del proprio operato. In ambienti berlusconiani ce l’hanno con lui perché non ha voluto allargare i cordoni della borsa e gongolano nel vederlo in difficoltà. Fatto sta che Umberto Bossi s’impunta sulla riforma delle pensioni e il decreto di Ferragosto diventa un campo di battaglia. 

Tim Geithner, segretario al Tesoro di Barack Obama, racconta nel suo libro di memorie intitolato “Stress Test” che “alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere; volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti del Fondo monetario internazionale all’Italia fino a quando non se ne fosse andato. Parlammo al presidente Obama di questo invito sorprendente – continua Geithner – Ma per quanto sarebbe stato utile avere una leadership migliore in Europa, non potevamo coinvolgerci in un complotto come quello. ‘Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani’, io dissi”. Secondo i berlusconiani duri e puri Tremonti si sarebbe convinto di poter succedere al Cavaliere, con l’appoggio della Germania o meglio del ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble. Il 23 ottobre, durante una conferenza stampa a Bruxelles, di fronte alla domanda: “Credete che Berlusconi rispetterà gli impegni?”, la Merkel e Sarkozy si scambiano sorrisetti derisori. La situazione precipita al G20 di Cannes. Il vertice ha due obiettivi di fondo: impedire il referendum greco proposto il 31 ottobre da un George Papandreou alla canna del gas e mettere l’Italia con le spalle al muro.

Quanto a José Luis Rodriguez Zapatero, la sua sorte era segnata. Il 3 novembre durante la cena ufficiale, nel palazzo di Cannes che ospita il Festival del Cinema, Angela Merkel avvicina senza preavviso il premier spagnolo: “Mi chiese se fossi disponibile a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi al Fmi mentre altri 85 miliardi sarebbero andati all’Italia”, racconta Zapatero nel suo libro di memorie intitolato “El Dilema”: “La mia risposta fu diretta e chiara: ‘no’”. I leader presenti spostano la pressione sull’Italia sperando di arginare il rischio contagio della crisi esplosa in Grecia. Berlusconi tentenna: 85 miliardi sono un bel malloppo. A opporsi è Tremonti: “Posso pensare a modi migliori per commettere suicidio”, dice con una delle sue frasi che più tremontiane non si può; lo ricorda anche Zapatero il quale commenta che “l’Italia fece catenaccio”. Il premier socialista spagnolo viene sconfitto alle elezioni il 20 novembre, Papandreou si era dimesso il 9, Berlusconi il 12. Ma a Palazzo Chigi entra Monti, non Tremonti. Napolitano aveva scelto già da mesi, almeno fin da settembre, però ha lasciato aperto a lungo uno spiraglio o forse un’illusione. Il momento è particolarmente amaro per l’ormai ex ministro: il 7 luglio 2011 nel pieno della crisi, la magistratura mette sotto scacco il suo consigliere Marco Milanese che da ex finanziere era diventato deputato per il Popolo delle libertà e aveva accumulato benefici e poteri. La vicenda lascia strascichi umani e politici, non giudiziari.

7 - L’amico americano

L’America non è la sua tazza di tè direbbero gli inglesi, per i quali invece Tremonti nutre una vera ammirazione (è stato anche visiting professor a Oxford). Tuttavia è socio fin dall’inizio della Fondazione di amicizia tra Italia e Usa insieme a molti altri di varia tendenza. Il vero balzo oltre Atlantico avviene con l’Aspen Institute del quale è presidente ormai pluridecennale (si è sospeso dopo aver accettato la candidatura alla Camera nel collegio Lombardia 1). Ciò gli apre porte trasversali. Due o tre volte l’anno va negli States e i convegni dell’istituto lo mettono in contatto anche con i democratici dell’ala moderata, non solo con i repubblicani. A Parigi conosce Joe Biden, che partecipa spesso agli eventi Aspen. Più di altri del centrodestra Tremonti è convinto dell’ancoraggio atlantico e non ha avuto esitazioni a condannare la Russia per l’invasione dell’Ucraina. Fondato nel 1950 dall’industriale Walter Paepcke, l’istituto prende il nome dalla località del Colorado dove si svolgono molti meeting, ma il quartier generale è a Washington. I principali finanziatori sono le fondazioni Carnegie, Rockefeller e Ford, in Italia è stato portato nel 1984 da Francesco Cossiga, De Michelis e Marisa Bellisario, la manager vicina al Psi. Insomma, siamo in uno dei centri della plutocrazia globalista, per usare una definizione vicina ai ragazzi di Atreju, nel quale l’anno scorso è entrata anche Giorgia Meloni. Una frequentazione che deve aver influito sulla conversione atlantista dei Fratelli d’Italia. Come Fedele Confalonieri, Tremonti resta un bossiano che guarda alla Meloni e la Meloni guarda a lui.


8 - L’anti Draghi 

Quando nasce l’inimicizia senza fine? C’è chi evoca il mitico Britannia dove venne “svenduta” l’Italia. Ma a bordo del panfilo della regina Elisabetta c’erano entrambi, Tremonti come osservatore e Draghi come direttore generale del Tesoro: tenne un breve discorso e poi sbarcò prima che cominciasse la crociera così da evitare “in maniera assoluta, ogni possibile sospetto di partecipazione o di commistione con i banchieri d’investimento, con le società a partecipazione statale, con alcuni di quelli che oggi ricoprono la carica di ministro e che allora rimasero a bordo della nave”, ha spiegato più tardi in Parlamento. Quando nel 2001 Tremonti torna a Palazzo Sella, Draghi ne esce per andare prima brevemente negli States e poi alla Goldman Sachs. Tutto si svolge rispettando l’etichetta, ma il gesto è carico di significati. Nel 2005 Berlusconi propone Draghi come governatore della Banca d’Italia seguendo il consiglio di Gianni Letta, non di Tremonti il quale punta su Grilli (ci riprova poi senza successo nel 2011). Non si prendono, non si comprendono, troppo diversi Tremonti e Draghi, troppo sicuri di sé. Uno avvocato, l’altro economista; l’uno lombardo-veneto, l’altro romano educato dai gesuiti; l’uno ideologo, l’altro pragmatico: due galli nel pollaio italiano. Mai però le frecce tremontiane erano state velenose come quest’anno: l’ex banchiere centrale è stato un disastro, peggio ancora, un grande bluff e poi un vero inganno perpetrato per diventare presidente della Repubblica. Dopo la sconfitta nella competizione per il Quirinale, il capo del governo ha tirato i remi in una barca avviata verso il naufragio. Più tempo passa più sale la polemica, più Tremonti diventa il vero avversario di Draghi.


9 - Giulio e Giorgia

Il feeling con la Meloni scatta ad Atreju, la conoscenza durante il quarto governo Berlusconi. Tremonti diventa un guru anche per la destra antagonista come CasaPound, dove presenta nel 2016 il suo libro più movimentista “Mondus Furiosus”. Ora tutti si chiedono che cosa farà se va al governo. Favorirà la de-globalizzazione, duellerà con la Ue, cercherà sponde nella destra tedesca e in quella francese anti Macron, darà spago alla Brexit e a Boris Johnson anche una volta uscito dal numero 10 di Downing Street? Negli Usa meglio i repubblicani, ma con o senza Trump? Per capire l’agenda Tremonti aiuta cogliere fior da fiore dai libri che rappresentano la sua parabola. I titoli sono già eloquenti: “Le cento tasse degli italiani” 1986, “Il federalismo fiscale” 1994, “Rischi fatali” 2005, “La paura e la speranza” 2008, “Uscita di sicurezza” 2012, “Mundus Furiosus” 2016, ma soprattutto l’ultimo, “Le tre profezie, Appunti per il futuro dal profondo della storia” pubblicato nel 2020. Qui Tremonti prende spunto dalla visione di Marx sull’avvento del capitalismo globale contenuta già nel “Manifesto” del 1848, la previsione del “Faust” di Goethe sull’emersione di un mondo virtuale alternativo, infine l’intuizione di Leopardi sulla crisi di una civiltà che diviene cosmopolita. La globalizzazione nasce da una “mente collettiva”, formata da “uomini potenti e pensanti, anglosassoni ed europei, politici e illuminati, accademici e finanzieri, affaristi, tecnici e visionari” (i soci dell’Aspen Institute potremmo dire o quelli che ogni anno si riuniscono a Davos). Non un complotto, piuttosto un errore, perché avrebbe dovuto essere condotta in tempi più lunghi e più saggiamente. Ciò ha prodotto guasti profondi, compresa la nascita di una antropologia globale, un mondo dove “l’influencer è divenuto il profeta”, con aberrazioni culturali. E non manca nemmeno “l’ultimo uomo” di Nietzsche, colui che si comporta come “un gregge di armenti senza guida... un tipo plebeo in fin dei conti discretamente odioso”. Oggi è arrivata la crisi di questa mondializzazione e si tratta solo dell’inizio: “La giovane talpa populista sta infatti salendo in superficie”, nutrita dallo spaesamento di grandi numeri di cittadini. Marx aveva ragione, se non per il fatto che questi non sono comunisti ma “diversamente rivoluzionari”. Dal Manifesto di Ventotene del 1941 nasce l’idea di una federazione europea che deve annichilire gli stati-nazione, da qui è maturata l’avversione di molti cittadini a una Ue che oggi ha la forma di “una piramide rovesciata, con troppo poteri in alto e pochi al livello delle comunità nazionali”. In fondo, una delle origini del populismo e del sovranismo che si sono diffusi nel continente.

Menti anglosassoni illuminate, talpe populiste, piramide rovesciata, c’è da organizzare almeno altri tre festival di Atreju. L’attacco al governo Draghi non è davvero diplomatico. Dall’autunno non è stato fatto nulla. “La gravità della situazione è crescente. Questo governo faceva prevedere molti interventi e riforme, ma, dallo scorso autunno, non è stato fatto più nulla. Anzi è stata firmata solo una legge finanziaria colabrodo”. E ancora: “Il governo frega soldi con Iva e accise che non vengono restituite”. Sono parole da campagna elettorale, ma cosa fanno intravedere? La situazione è grave, allora ci vogliono interventi gravi. Una legge finanziaria senza buchi è una finanziaria blindata. Per restituire Iva e accise occorre trovare nuove risorse. L’imposta sui sovraprofitti è fallita perché “era sbagliata”, allora meglio imposte corrette, ma pur sempre imposte che portino risorse aggiuntive. Chi paga? Questione essenziale senza risposta. E ancora: se il Pnrr assomiglia a un Gosplan, come Tremonti ha spiegato al Foglio, allora bisogna disfarlo, rifarlo oppure gettarlo alle ortiche? 

La coalizione di centrodestra, del resto, non ha le stesse idee sul che fare. Matteo Salvini chiede un nuovo scostamento di bilancio da 30 miliardi di euro, Giorgia Meloni è assolutamente contraria, come pure Tremonti che lo considera rischioso perché i mercati sono in agguato: meglio un tetto europeo al prezzo del gas che un intervento solo italiano; prima ancora, “serve un’azione europea comune, come quella contro la pandemia, che agisca non soltanto sugli extra profitti delle imprese ma soprattutto sull’extra gettito. Bisogna scorporare dai costi le imposte di fabbricazione e l’Iva. Si può fare subito. Sotto il tetto, c’è una casa abitata da demoni”. Ma le differenze tra alleati non finiscono certo qui. Prendiamo i rigassificatori: tutti d’accordo a Roma, poi nei territori sono dolori, come dimostra l’opposizione di Francesco Ferrari, sindaco di Fratelli d’Italia a Piombino. Non si sa neppure che fine farà il Ponte sullo Stretto: viene rivendicato da Berlusconi e Salvini, mentre Meloni frena. E poi il fisco: la Lega vuole la flat tax, con l’appoggio di Forza Italia, FdI la smorza con la “flat tax incrementale” secondo la quale chi migliora i propri guadagni paga di più, filosofia del tutto opposta. Sulle pensioni Salvini chiede quota 41, ma nel programma comune c’è solo un pallido riferimento “alla flessibilità in uscita”: nessuna abolizione della legge Fornero, dunque, semmai revisione dello “scalone”. L’atlantismo di Meloni e Berlusconi è netto, così come quello di Tremonti, meno l’europeismo. Sulla Russia, Berlusconi e Salvini sono in imbarazzo quando si tratta di condannare l’invasione dell’Ucraina ordinata da Putin. Vedremo se il governo di destra continuerà a finanziare e armare la resistenza oppure si coprirà dietro un’improbabile iniziativa di pace. Sulla crisi del gas, Tremonti accusa, ma vola alto: “Ci sono paesi come l’Olanda che traggono grandi profitti da questa situazione. Bisogna agire anche lì. Partendo da un ragionamento che finora è mancato: ciò che sta accadendo è la combinazione fra l’azione demoniaca della Russia, la speculazione dei mercati e le convenienze dei paesi che sfruttano questo stato di cose, applicando imposte sull’energia come se nulla fosse, salvo parziali e successive restituzioni. Va cambiato questo modo di procedere, ma non in modo unilaterale, bensì con un’azione forte dell’Europa”.

Diceva Tremonti nel 2007: “Il nostro problema, in una età di crisi universale, è quello di conservare valori che per noi sono eterni. Non i valori dei banchieri centrali, per esempio. Ma i valori dei nostri padri spirituali, valori personali e universali. A ciò deve aggiungersi la difesa dell’identità, che è la difesa delle nostre diversità tradizionali, storiche e basiche: famiglie e piccole patrie, vecchi usi e costumi, vecchi valori. Nel profondo c’è qualcosa di molto più intenso che una parodia bigotta della tradizione”. Al “mercatismo”, si contrappone un pensiero che ricorda Joseph de Maistre, fine giurista, roccioso pensatore, abile diplomatico alla corte dei Savoia, ideologo intransigente quanto contraddittorio fino al paradosso, politico realista, cattolico tradizionalista, ma non bigotto. Anche Tremonti al pari dell’illustre conte sabaudo “parla con il linguaggio del passato, ma presagisce il futuro”? Isaiah Berlin ha dedicato un ampio saggio all’eminente paladino della restaurazione, individuando in lui persino i germi del fascismo. Il filosofo liberale che pure ha criticato a fondo l’egemonia del “calculemus” contro la quale è in corso “una confusa rivolta” che finisce per accomunare jihadisti e no global, forse questa volta ha esagerato, s’è fatto prendere dal troppo acume. Enrico Letta non sbaglierebbe a mettere de Maistre nel suo campo nero. E Giulio Tremonti? Resta sospeso anche lui tra il vecchio che muore e il nuovo che deve nascere.

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