Perché Meloni non potrà incidere granché sul Pnrr di Draghi
Le strutture di governance non potranno essere modificate: i tecnici al servizio dell'ex capo della Bce resteranno in carica. Intanto le trattative con la Commissione europea per gli aggiornamenti del Piano nazionale di riforme sull'energia vanno avanti. L'asse Roma-Bruxelles e la catena di sicurezza sul Recovery benedetta dal Quirinale. Così il nuovo governo non potrà fare troppi danni
Gli irriducibili del sovranismo ci vedranno il complotto del deep state che sterilizza il volere popolare. I tecnici della Commissione europea, più semplicemente, la definiscono la “cintura di sicurezza”: è quella catena di comando che dal Quirinale a Palazzo Chigi, passando per il Mef, sovrintende all’attuazione del Pnrr. Una struttura su cui anche Giorgia Meloni, quando diventasse presidente del Consiglio, potrà intervenire ben poco, trattandosi di una governance creata per resistere, a norma di legge, alle dinamiche dello spoil system. E insomma perfino le annunciate ambizioni di modificare il Piano appaiano un poco velleitarie, se è vero che il futuro governo, qualsiasi sarà, si troverà ad ereditare un dossier già assai definito, perfino negli eventuali ritocchi da apportare.
Non che le parole, come ama ripetere Mario Draghi, non bastino esse sole a fare danni. Specie in una fase in cui il governo italiano sta gestendo una partita diplomatica non banale, con gli ispettori di Ursula von der Leyen, per convincerli a considerare davvero conseguiti tutti gli obiettivi fissati per giugno scorso – compresi quelli, come l’introduzione della figura del docente esperto nelle scuole, su cui a Bruxelles permangono alcuni dubbi – e liquidare così il prima possibile la relativa rata da 21 miliardi.
E però, appunto, qui sta il problema della Meloni. La realizzazione del Pnrr passa, sì, dall’effettivo raggiungimento dei target fissati nel Piano, ma dipende anche da una consuetudine di rapporti, da una solidità di relazioni, insomma da una fiducia reciproca fra i tecnici italiani e quelli comunitari. Anche, e soprattutto, per quel che riguarda le possibili modifiche al Pnrr di cui tanto si parla. Anche quelle, andranno richieste solo nel rispetto delle linee guida comunicate dalla Commissione a metà maggio scorso, e a seguito di quello che viene definito “un dialogo informale” tra i vari governi e i funzionari di Bruxelles preposti al controllo delle procedure.
Tutto parte dai nomi. Sarà anzitutto con quelli, che chi vincerà il 25 settembre dovrà fare i conti. Le strutture di governance del Pnrr sono state create, nel maggio del 2021, per sopravvivere al mutare degli umori e dei colori delle maggioranze politiche, restando in vigore fino al 31 dicembre del 2026. E dunque la segreteria tecnica presieduta da Cristina Goretti, e insieme a lei il Comitato per la regolamentazione guidato dal prof. Nicola Lupo, e poi ovviamente il Servizio centrale istituito presso il Mef e coordinato da Carmine Di Nuzzo: eccola, la “cintura di sicurezza”, addentellati di un ingranaggio pensato per non essere inceppato. Cosa che in effetti, almeno per ora, non sta accadendo. Neppure sul dossier più caro alla Meloni: quello dei possibili cambiamenti al Pnrr. Che a Palazzo Chigi non escludono affatto, se non altro perché è Bruxelles a sollecitarli. Solo che, se la propaganda patriottica evoca soluzioni fantasiose e un po’ spericolate, per “riscrivere” il Piano, il governo si muove invece nel rispetto delle linee guida emanate da Bruxelles. Che prevedono, appunto, una finestra specifica in cui proporre cambiamenti e correzioni, proprio in virtù delle conseguenze della guerra scatenata da Vladimir Putin.
Sarà gennaio 2023, il momento cruciale. E’ quello il mese in cui, infatti, entrerà in vigore il RePower Eu, il fondo europeo per affrontare la crisi energetica che si configura a tutti gli effetti come un capitolo aggiuntivo del Recovery. Le richieste andranno presentate tutte in un singolo pacchetto, e dovranno essere rispettose dei sei pilastri alla base del Next Generation Eu. Tutto in una volta, dunque: e quanto potrebbe davvero interferire un nuovo governo, entrando in carica non prima di metà ottobre, su un confronto serrato che tra Roma e Bruxelles va avanti da giugno? Sarà, quella, anche l’occasione per rivedere alcuni degli obiettivi del Pnrr. Ma bisognerà farlo con richieste chirurgiche, tutte sostenute “dall’evidenza di circostanze oggettive, da valutare caso per caso”. In sostanza, come indicato nel dossier di Bruxelles, solo l’impennata dei prezzi dell’energia e la difficoltà di reperire materie prime possono essere valide motivazioni. E determineranno modifiche puntuali. “Quanto è aumentato il prezzo dell’energia? E in che misura ciò impatta sul raggiungimento di questo progetto?”. Bisognerà rispondere a simili domande per vedersi accordato un finanziamento extra o un prolungamento delle scadenze.
E del resto tutti gli aggiornamenti al Piano da validare nell’ambito del RePower Eu dovranno avere, tra gli altri, l’obiettivo primario di accelerare l’indipendenza energetica europea dalla Russia. Scopo ritenuto così fondamentale che, in suo nome, si potrà anche deviare dal principio del “do not significant harm”, e aumentare dunque il ricorso a fonti fossili inquinanti nel breve periodo. Anche qui, in modo assai stringente: nel senso che in una tabella andranno indicati i milioni di metri cubi di gas che, con quel determinato investimento, si sottrarranno al novero delle forniture provenienti da Mosca.
E’ a questo che un pezzo di governo italiano lavora, in silenzio, da settimane. Quando il nuovo governo si insedierà, la maggior parte del lavoro, su questo dossier, sarà stato impostato. Davvero qualcuno, in nome del sacro volere del popolo italiano, oserà rimettere tutto in discussione?