Caro Letta, il Jobs Act non c'entra nulla con Blair: è ispirato a Palme
La norma sul lavoro varata dal governo Renzi nasce dall'esempio delle socialdemocrazie scandinave e non in Gran Bretagna. Il desiderio di Letta di andare oltre somiglia a una perdita di identità del Pd
Le dichiarazioni di Enrico Letta e i suoi tweet su Jobs Act, riforma del lavoro spagnola e Blair hanno rimesso in circolo su Twitter un articolo scritto con Tommaso Nannicini nel 2018 per Repubblica. Argomentavamo che il Jobs Act – al cui disegno, stesura dei vari decreti attuativi e loro approvazione parlamentare entrambi avevamo collaborato – non c’entrava proprio nulla col blairismo, mentre era ispirato alle socialdemocrazie scandinave. Paradosso vuole che il nostro obiettivo polemico fosse, all’epoca, Carlo Calenda, che attribuiva al Jobs Act un eccesso di blairismo. Cinque anni dopo, questa parte la fa Letta. Mala tempora currunt, sed peiora parantur.
Come ha osservato Pietro Ichino sul Foglio del 6 settembre, il Jobs Act è un tentativo più o meno organico di riforma, composto da varie parti. Tra queste, un sistema di sussidi di disoccupazione degno di questo nome e l’estensione delle integrazioni salariali in caso di sospensione o riduzione temporanea del lavoro a molti che prima non ne avevano diritto (non a caso, questi sono stati i canali usati per sostenere il reddito dei lavoratori nei lockdown durante la pandemia).
Così come il tentativo di creare una governance efficace per le politiche attive (smantellato nei fatti dal ministro del Lavoro Andrea Orlando, che ha ricreato una direzione generale per le politiche attive al ministero e reso l’Anpal un’inutile agenzia alla mercé delle regioni). Il filo conduttore è quello di un capitalismo dinamico, nel quale le imprese che non ce la fanno escono dal mercato (non si tratta qui di eventi come la pandemia o la crisi energetica in corso, per i quali occorrono misure straordinarie). Chiudono i battenti, non vengono tenute in vita artificialmente da strumenti aberranti come la cassa integrazione per cessazione di attività, uno strumento unico al mondo: abrogata dal Jobs Act, amatissima dal ministero dello Sviluppo economico sempre in cerca di cavalieri bianchi, reintrodotta a grande richiesta sindacal-confindustriale dal governo gialloverde.
Le integrazioni salariali ci sono, eccome, ma servono a mantenere in azienda personale formato o a favorire la mobilità all’interno dell’impresa. Non è un tabù licenziare, non è una vergogna perdere il lavoro; chi è in questa condizione ottiene un sostegno al reddito di durata appropriata (il sussidio di disoccupazione introdotto dal Jobs Act dura sino a due anni) e interventi di politica attiva, in particolare formazione, per trovare un’altra occupazione.
Questo sistema riproduce un pezzo del modello Rehn-Meidner che ha sostenuto l’espansione economica svedese dagli anni ’50 (fondamentale lì era la compressione salariale – basata su organizzazioni sindacali forti e un sistema di relazioni industriali cooperativo – che garantiva al sistema guadagni continui di produttività attraverso l’espulsione delle imprese meno produttive e l’incremento delle competenze dei lavoratori) e ai cui principi è tuttora improntato il funzionamento del capitalismo democratico nelle socialdemocrazie avanzate.
La protezione dei lavoratori avviene “by wings” (sussidi di disoccupazione e politiche attive per facilitare le transizioni) piuttosto che “under shells” (la property rule di cui parla Ichino, il vecchio articolo 18). In epoca contemporanea, gli effetti di questa impostazione sono stati crescita economica, innovazione tecnologica con espansione dell’occupazione nei servizi IT e ad alto valore aggiunto, elevate competenze dei lavoratori e contenimento delle diseguaglianze dei redditi.
Blair non c’entra nulla, ma proprio nulla. L’alternativa a questo, se proprio non si vuole introdurre il divieto di licenziamento (ma non escluderei qualche tweet al riguardo prima del 25 settembre), è la cristallizzazione della segmentazione del mercato del lavoro tra varie categorie di garantiti e non garantiti. La dualizzazione tedesca, con i lavoratori (e soprattutto le lavoratrici) dei servizi a sostenere il mantenimento delle condizioni che valgono per gli uomini occupati nella grande manifattura. Risultato? L’incremento delle diseguaglianze.
Ora, tutto questo è un po’ più articolato del mero richiamo alla flexicurity, perché il Jobs Act era idealmente un progetto di ammodernamento del capitalismo democratico italiano (relativamente al mercato del lavoro e alla protezione sociale legata al lavoro, che già detta così era un gran bel vaste programme…). Un progetto inclusivo, che mirava a dare opportunità ed estendere le protezioni per i vari outsider (giovani, donne, immigrati, lavoratori delle piccole imprese), scongelare la tradizionale segmentazione del mercato del lavoro italiano, ridurre le diseguaglianze prodotte dal suo funzionamento. Certamente, anche attraverso la sua liberalizzazione.
Come dice Kathy Thelen però, e Letta dovrebbe tenerlo a mente, non ogni mossa che mantiene la regolazione del mercato del lavoro ha effetti solidaristiici, e non ogni mossa che la attenua riduce anche la solidarietà sociale. Anzi. Ora, non c’è dubbio che si trattasse di un progetto parziale, perché riguardava il solo lavoro dipendente (ma interventi sul lavoro autonomo vennero in seguito), anche per quanto riguarda la protezione sociale.
I temi della flessibilità interna all’impresa e dell’impatto del cambiamento tecnologico erano in sottofondo, ma l’elemento che consentiva di attrezzarsi per le trasformazioni future era l’enfasi sull’acquisizione di competenze che consentono le transizioni fuori e dentro l’impresa. E qui sta un aspetto di modernità del Jobs Act che Letta non dovrebbe liquidare a cuor leggero: fornire un quadro regolativo per favorire l’investimento in competenze. La riforma del contratto a tempo indeterminato, per incentivarlo a discapito della rotazione di rapporti a tempo determinato usati per coprire posizioni di lungo periodo, è mirata a quello, perché nei rapporti a termine né l’impresa né il lavoratore investono in formazione.
Questo dà luogo a intrappolamento dei lavoratori in successioni di contratti a termine che non evolvono mai, a bassi investimenti in capitale umano da parte delle imprese, a perdite di produttività del sistema economico. La riforma del contratto a tempo indeterminato, quella della cassa integrazione, quella delle politiche attive, tutte avevano come obiettivo gli investimenti in competenze.
In un bellissimo libro, “Democracy and Prosperity”, Torben Iversen e David Soskice argomentano che il capitalismo democratico è ancorato, contro i populismi, da condizioni favorevoli alle famiglie della classe media aspirazionale. In un mercato del lavoro flessibile ma dotato di adeguate protezioni, quello che queste famiglie vogliono sono investimenti pubblici nella creazione di competenze: politiche (attive) del lavoro per sé, istruzione di qualità per i propri figli. Questo era il Jobs Act. La cui modesta fortuna nell’opinione pubblica sconta principalmente due errori.
Il primo è la narrativa – rivelatasi fallimentare – di Matteo Renzi, dalla cui voce raramente si sono sentiti gli argomenti precedenti, sostituiti da una narrazione apodittica, improntata a una contrapposizione basata su simboli e identità. Questo ha polarizzato il dibattito intorno al Jobs Act come atto di leadership politica, rendendo vana ed effimera qualsiasi narrativa basata sui contenuti e l’esplicitazione dei nessi causali sottostanti le scelte di politica pubblica (per chi volesse, segnalo un articolo open access scritto con Tullia Galanti su Policy and Society, 2019).
Il secondo errore è il vero elefante nella stanza: avere mantenuto (e anzi incorporato nel dlgs 81/2015) la liberalizzazione dei contratti a termine introdotta nel 2014 con il decreto Poletti. Se hai modificato la disciplina dei contratti a tempo indeterminato con l’obiettivo di renderli la modalità prevalente di assunzione, mantenere le regole introdotte per dare un colpo di acceleratore alle assunzioni in una fase precedente è schizofrenico. Soprattutto, riduce la credibilità dei tuoi sforzi e offre munizioni a chi parla a sproposito del Jobs Act come vettore di precarietà.
Se è così, è allora proprio la riforma dei contratti a tempo indeterminato del Jobs Act a consentire, se lo si desidera, il superamento della disciplina attuale dei contratti a termine (che, si badi bene, non viene dal Jobs Act, bensì dal decreto dignità dell’alleato Di Maio e dal decreto sostegni bis del governo Draghi!). Ho l’impressione che la fascinazione di molti per la riforma spagnola venga più dal metodo (concertativo) che dal suo contenuto, giacché per come illustrata da Massimo de Minicis su lavoce.info essa non sarebbe dirompente per il mercato del lavoro italiano.
Da un lato estende l’ultrattività dei contratti collettivi scaduti, e vabbè; dall’altro estende a ben un anno la cassa integrazione (il perfido Jobs Act la prevedeva fino a due anni, tre anni con i contratti di solidarietà!). Poi viene il piatto forte: la previsione di una causale stringente per i contratti a termine, al di fuori della quale essi non possono essere stipulati. La forte deregolamentazione dei contratti a tempo indeterminato introdotta all’inizio degli anni 2010 non viene toccata. L’adozione della riforma spagnola costituirebbe non il superamento, bensì il completamento del Jobs Act.
Sorge allora il sospetto che la narrazione di Letta sia speculare a quella di Renzi nel 2015: simbolica e identitaria, senza referenti di politica pubblica, tutta improntata a “dire qualcosa di sinistra”. Ma non è di sinistra adottare politiche volte a includere gli outsider, ridurre la segmentazione, estendere i diritti sociali e l’accesso a questi a chi ha meno risorse, mettere in campo un quadro regolativo improntato all’eguaglianza di opportunità e renderlo operativo fornendo agli individui gli strumenti e i mezzi per trarne vantaggio? Oppure lo è dire parole reboanti, piene di furore, che non significano nulla?
C’è su Youtube un meraviglioso, commovente video di Olof Palme che in una tribuna elettorale reagisce a una provocazione del primo ministro conservatore Fälldin che chiedeva, a lui aristocratico di nascita diventato leader socialdemocratico, chi fosse esattamente. Dopo avere illustrato come fosse diventato socialista, osservando le diseguaglianze in India e ancor peggio nei paesi avanzati, e perché fosse orgoglioso delle scelte dei governi socialdemocratici precedenti, indicate una per una, Palme terminava chiedendo al conservatore: “E tu, Fälldin, che cosa sei esattamente?”. E tu, Letta, che cosa sei esattamente?