Bicamerale, 40 anni di flop
Da De Mita a D'Alema, fino a Renzi, la “Grande riforma” è un miraggio pericoloso per i leader. Ora ci prova Meloni
La presidente di FdI ha lanciato l'ennesima proposta per le riforme istituzionali (la quarta nella storia della Repubblica). Il primissimo fu Bettino Craxi, in un articolo sull’Avanti del 1979. Tutti questi precedenti, a ogni modo, rappresentano un caso di studio
Il prossimo 14 aprile saranno esattamente quarant’anni dalla nascita della prima commissione bicamerale per le riforme istituzionali (o per meglio dire dal suo concepimento, perché di fatto fu varata soltanto il 12 ottobre). Presieduta dal liberale Aldo Bozzi, nel corso di cinquanta sedute e per oltre un anno di lavori, dal novembre 1983 al gennaio 1985, la prima bicamerale per le riforme propose la revisione di ben quarantaquattro articoli della Costituzione, concludendosi in un sostanziale nulla di fatto, come accadde del resto – se si eccettuano gli spin-off di alcune elaborazioni riprese in seguito dal Parlamento – ai progetti di riforma partoriti da tutte le successive bicamerali, nonché a ogni analogo tentativo condotto attraverso altre formule, nel corso dei quarant’anni seguenti.
Dev’essere dunque per arrivare preparati e poter celebrare degnamente questo importante anniversario che la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, data da tutti i sondaggi per favorita alle prossime elezioni, ha lanciato la proposta di un’ennesima bicamerale per le riforme istituzionali. La quarta, per l’esattezza. Nonostante lo strumento non abbia in sé nulla di speciale e si possa applicare un po’ a tutto – la vita parlamentare è piena di bicamerali; è una bicamerale, per dire, anche la commissione di vigilanza Rai – il significato e il valore simbolico assunto dalla bicamerale per le riforme istituzionali, in particolare con il tentativo guidato nel 1997 da Massimo D’Alema (il terzo, nonché quello che arrivò più vicino al risultato), ha fatto sì che la parola “bicamerale”, non seguita da ulteriori specificazioni e spesso insignita della lettera maiuscola, finisse per rappresentare nel dibattito, per antonomasia, la commissione composta da deputati e senatori dedicata alle riforme istituzionali. Per le ragioni sommariamente sopra elencate, quella parola ha finito tuttavia per rappresentare anche altre cose. In breve: accordo trasversale che fa incazzare tutti e non approda a nulla; compromesso politico deteriore; losca manovra di Palazzo; gigantesca perdita di tempo.
È comunque significativo il fatto che pure per la parola “riforme” vale ormai quel che vale per “bicamerale”: in assenza di ulteriori precisazioni, quando si parla di “riforme”, nel nostro paese, s’intendono le riforme istituzionali. E anche questo la dice lunga su come sono andate le cose nella politica italiana, in questi quarant’anni, e forse spiega pure un po’ di quella famosa disaffezione, che da allora in poi non ha fatto che crescere. A titolo di esempio, ecco come il 19 aprile 1984 Repubblica riassumeva i termini del dibattito: “Per venire ‘incontro’ alle posizioni di chi (in primo luogo i comunisti) ritiene che come base della Grande Riforma sia necessaria l’abolizione di una delle due Camere – il Pci vorrebbe abolire il Senato – lo schema presentato da Bozzi prevede una netta distinzione, nella composizione come nei compiti, delle due assemblee. La funzione legislativa verrebbe esercitata prevalentemente dalla Camera mentre il Senato avrebbe soprattutto una funzione di controllo sul governo e sulla pubblica amministrazione”.
Fa una certa impressione pensare che quando usciva questo articolo al Cremlino sedeva ancora Konstantin Cernenko (da appena due mesi, peraltro), ma nel Parlamento italiano già si discuteva di come superare il bicameralismo paritario. Proposta che avrebbe caratterizzato anche gran parte dei tentativi di riforma successivi, compreso da ultimo il progetto voluto da Matteo Renzi, approvato dal Parlamento dopo oltre un anno di battaglie, compromessi e contestazioni, per essere infine bocciato dagli elettori nel referendum del 2016. Facile prevedere che la prossima bicamerale, se si farà, comincerà proprio da lì, perché il bello è che sul punto, salvo questioni di dettaglio, sono praticamente tutti d’accordo, da oltre quattro decenni (è il vero e inconfessato motivo per cui, quando Renzi aveva avuto l’improvvida idea di scommettere il posto sull’approvazione di una riforma del bicameralismo perfetto, sotto sotto, pensava di essere stato furbissimo).
C’è davvero qualcosa di misterioso nelle ragioni che spingono ciclicamente tanti leader di questo paese a inseguire il miraggio di una grande riforma istituzionale con cui s’illudono forse di passare alla storia come il de Gaulle italiano, per poi finirne sempre travolti. A onor del vero, il primo a lanciare la parola d’ordine della “grande riforma”, in un articolo sull’Avanti del 28 settembre 1979, è Bettino Craxi. E dopo oltre un decennio di dibattiti, battibecchi e bicamerali (ben due: la già ricordata commissione Bozzi nel 1983 e la commissione De Mita-Iotti nel 1992), quando effettivamente un salto di sistema sarà compiuto, sia pure per la via traversa dei referendum elettorali (sulla preferenza unica nel 1991 e sul maggioritario nel 1993) proprio Craxi ne sarà la vittima sacrificale, diventando, prima ancora di Tangentopoli, il simbolo stesso di quel sistema che tenta di resistere al cambiamento.
E’ come se il tentativo di farsi alfieri del rinnovamento determinasse al tempo stesso il successo iniziale e la successiva rovina dei leader, o per essere più precisi di un certo tipo di leader: quello che, partendo dalle retrovie, da una condizione minoritaria o di isolamento, si intesta la battaglia della grande riforma per rovesciare quegli equilibri che gli sono sfavorevoli. Il più delle volte, tuttavia, è proprio l’iniziale successo, il prospettarsi di quella storica vittoria sfuggita a tutti i predecessori, a coalizzare contro l’aspirante demiurgo una tale quantità di forze, inimicizie, rivalità, da costringerlo rapidamente all’angolo e infine sommergerlo sotto una valanga di accuse, insinuazioni, sospetti, pettegolezzi e calunnie.
Da questo punto di vista, la parabola della bicamerale D’Alema rappresenta un caso di studio. Rilevare l’inusitata violenza e l’assoluta pretestuosità di gran parte degli attacchi subiti, specialmente ex post, non significa d’altra parte negare errori, leggerezze e superficialità. Basta ricordare il modo in cui la commissione bocciò inaspettatamente la proposta del suo presidente sul cosiddetto “premierato forte”, imboccando la strada del semipresidenzialismo alla francese, semplicemente perché i leghisti di Umberto Bossi, che fino a quel momento avevano rifiutato di partecipare ai lavori, si presentarono a sorpresa e votarono col centrodestra (dal quale si erano traumaticamente separati poco più di due anni prima).
Eppure, dando prova di una certa duttilità, la bicamerale D’Alema proseguì i suoi lavori sull’ipotesi semipresidenziale anche con maggior lena di prima, disegnando una riforma complessiva dell’architettura istituzionale di rara ambizione (compresa ad esempio la riforma federalista del titolo V, che sarà poi ripresa e approvata a maggioranza dal centrosinistra, e che la riforma Renzi tenterà invano di correggere).
Più ancora dei singoli progetti di riforma della bicamerale, a segnare durevolmente la politica italiana saranno però argomenti, toni e modi dei suoi nemici. Tra i tantissimi, meritano almeno una menzione Licio Gelli, che perfidamente dichiara di riscontrare diverse somiglianze tra il progetto di riforma e il suo celeberrimo piano di Rinascita democratica (un topos destinato a segnare tutte le successive polemiche, che in qualsiasi tentativo di riforma, a dispetto della statistica, troveranno sempre innegabili somiglianze con il progetto piduista); Gherardo Colombo, il magistrato di Mani pulite, che in un’intervista al Corriere della Sera definisce la bicamerale “figlia del ricatto”; Giampaolo Pansa che sull’Espresso s’inventa Dalemoni, mostro nato dall’incestuoso connubio tra D’Alema e Berlusconi.
Siccome nella politica italiana tutto si ripete e ciò nonostante nessuno impara mai niente, quando sarà Renzi a tentare la strada dell’accordo con Berlusconi per riformare la Costituzione, sarà proprio D’Alema a coniare, in un’intervista al Corriere della Sera, il poco originale epiteto di “Renzusconi”, accodandosi all’ultima riedizione della stessa campagna di demonizzazione di cui, quasi vent’anni prima, era stato vittima. Tutti gli slogan e gli stilemi utilizzati contro il leader del Pd nel 2016, infatti, non erano che la stanca ripetizione della campagna condotta allora. Tutta la letteratura sul “Patto del Nazareno” riprendeva pari pari l’analogo delirio cospirazionista intorno al “Patto della crostata” (così chiamato in quanto l’accordo politico sulle riforme sarebbe stato siglato durante una cena a casa di Gianni Letta, culminata nel dessert preparato dalla padrona di casa).
Lo stesso orrendo termine “inciucio”, che darà il titolo a un’infinità di articoli, libri, spettacoli teatrali e televisivi, con cui i precursori del populismo grillino cominceranno ad arare il terreno su cui germoglieranno la “casta” e tutte le altre formule magiche dell’antipolitica di oggi, nasceva da un’intervista allo stesso D’Alema, che aveva usato il termine (proveniente dal dialetto napoletano, con il significato però di “pettegolezzo”) per definire il timore, a suo giudizio ovviamente infondato, di un “accordo sottobanco”, di un compromesso deteriore frutto di ignobili e inconfessabili mercanteggiamenti. Significato con cui sarà usato sui giornali da quel momento in poi, marchiandolo per sempre (anche nell’ancor più orrenda declinazione di “inciucista”). Potenza del pettegolezzo.
Tutto questo però prenderà davvero forza soltanto qualche anno dopo. Nell’immediato, dopo avere sfiorato il successo, al punto da averci scritto un libro (e pure per Mondadori: “La grande occasione”), ed essere andato in tv a illustrare i pregi della riforma, come fosse ormai cosa fatta – che uno dice: ma anche solo per scaramanzia… – a far saltare tutto sarà, anche in quel caso, il voltafaccia di Berlusconi, almeno secondo la versione dalemiana (secondo il Cavaliere la responsabilità sarà del cedimento dalemiano al partito dei giudici sulla riforma della giustizia). Ad ogni modo, all’indomani del fallimento della bicamerale, D’Alema potrà consolarsi, come è noto, con la presidenza del Consiglio.
Sarà infatti solo all’indomani della secca sconfitta elettorale del 2001, dunque in una chiave tutta retrospettiva e recriminatoria, che a sinistra riprenderà fiato la campagna contro l’inciucio, il patto della Crostata, Dalemoni e tutti gli altri mostri escogitati dalla sovreccitata fantasia di un movimento di opinione ansioso di trovare un facile capro espiatorio e di mondarsi da ogni impuro contatto con l’avversario. Dal celebre urlo di Nanni Moretti al movimento dei girotondi cui darà impulso, il lascito più durevole dello sforzo riformatore dalemiano sarà proprio quel vasto campionario di accuse, insinuazioni e caricature con cui una parte della sinistra passerà il tempo ad automostrificarsi, aprendo la strada che qualche anno dopo sarà trionfalmente percorsa da Beppe Grillo. Ed è solo l’ultimo e il meno divertente tra i molti paradossi di questa storia, che proprio il movimento nato dal rifiuto di ogni impuro contatto con gli avversari e con Berlusconi in particolare – fosse anche solo per riscrivere insieme le regole del gioco, come allora si diceva – con la destra e con Berlusconi, come ben sappiamo, ci farà pure i governi.