Aspettando Max
Fedriga vuole blindare il suo Friuli prima di sfidare Salvini. Ma la Lega è una polveriera
Ad aprile si voterà per la regione: e il governatore leghista non vuole arrivarci come liquidatore del salvinismo. Ma in tanto lo pressano. La mappa del malcontento: dal Piemonte che guarda al Terzo polo, all'Emilia che implora il soccorso della Meloni, fino al Veneto e Lombardia dove ormai si muovono anche i colonnelli. Ed è allarme per Pontida
Il vento viene da nord est, ma forse con tempismo non perfetto. E allora prima la scossa dovrà prodursi dal basso. E’ la morsa nella quale Matteo Salvini rischia di finire schiacciato. La minaccia principale ha un nome e un cognome: Massimiliano Fedriga. Che coi parlamentari a lui più fidati ha smesso di schermirsi. Certo che lo sa, che così le cose non vanno. Certo che lo vede anche lui, il tracollo imminente della Lega. E però prima di esporsi, prima di lanciare la sfida al segretario periclitante, il presidente del Friuli deve mettere in sicurezza la sua ricandidatura: fino alla primavera del 2023 dovrà muoversi sul filo. E allora, prima che la battaglia congressuale deflagri, servirà mobilitare le truppe sul territorio. E c’è chi ci sta già lavorando.
In Lombardia, Salvini ne ha scontentati talmente tanti, nella composizione delle liste, che di capibastone pronti alla guerriglia ce n’è almeno uno per provincia. L’ex segretario lombardo, Paolo Grimoldi, uno che conosce fino all’ultimo militante delle sezioni delle valli bergamasche, ha già mandato segnali di preallerta. Il suo successore, Fabrizio Cecchetti, per sedare la rivolta ha spiegato che per molti degli esclusi – alcuni dei quali già parlano con Carlo Calenda di prospettive future – ci sarà una ricompensa quando bisognerà assegnare i posti da sottosegretario: ma siccome la stessa rassicurazione l’ha offerta ad almeno dieci diverse persone, c’è chi l’ha vista come una beffa ulteriore.
In Piemonte, il sabotaggio organizzato è così esplicito che un parlamentare locale del Carroccio, incrociando il renziano Luigi Marattin, che proprio in quella regione corre per il Terzo polo, gli garantisce: “Farò votare per te”. E inutile dire del Veneto, che di questo malessere è incubatore da tempo. Ed è notevole che perfino i vecchi bossiani che finora avevano sempre preferito coltivare con discrezione la propria insofferenza escano adesso allo scoperto: e così perfino uno come il trevigiano Giampaolo Dozzo, già presidente e commissario della Liga, e sottosegretario all’Agricoltura, e cinque volte deputato e capogruppo alla Camera, mette nero su bianco, in un post su Facebook subito sommerso di like e commenti da dirigenti locali del Carroccio, le sue critiche a Salvini in vista di Pontida.
Ché perfino l’evento più scintillante, quello a cui il Capitano lavora da mesi con l’obiettivo di lucidare la sua leadership ossidata, lì sul Sacro Pratone, rischia invece di risolversi in dramma. Per capirlo, basta vedere le facce perplesse dei leghisti emiliani, che dopo aver segnalato a Via Bellerio la scarsità delle adesioni ricevute alla vigilia della trasferta di domenica, si sono visti recapitare un messaggio che, dicono loro, “sa quasi di minaccia”, e nel quale si specifica che “ci sarà uno staff federale nei posteggi di scarico dei partecipanti per fare le foto ai presenti”: una trovata che serve a produrre qualche post in più sui social, ma che viene presa come una specie di tentativo di schedatura: “Vogliono farci le foto segnaletiche?”.
Il che dimostra quale sia il clima, lì in Emilia-Romagna, in quella che pure doveva essere la terra promessa del salvinismo galoppante, il fortino rosso da strappare a Stefano Bonaccini nel gennaio del 2020. E dire che c’è chi c’aveva creduto. Benedetta Fiorini, emiliana tutta d’un pezzo, riferimento costante delle imprese locali, due anni fa aveva lasciato FI per entrare nel Carroccio. Aveva accettato di correre nel collegio quasi impossibile di Imola, vedendosela col verde Angelo Bonelli, con la garanzia però di un paracadute sul proporzionale. Sennonché, nottetempo, quel posto nel listino proporzionale le è stato scippato da Armando Siri, non esattamente apprezzato dall’elettorato moderato di centrodestra. E allora si capisce perché, nel tentativo di salvare il salvabile, Jacopo Morrone, segretario della Lega romagnola, spieghi ai colleghi che bisogna sperare nel traino di FdI: ed eccolo, nel mezzo del Transatlantico, rincorrere una Meloni che vorrebbe godersi un attimo di serenità per una sigaretta nel cortile di Montecitorio, e pregarla di organizzare un evento elettorale dalle sue parti, con lei che si limita a rispondergli: “Sentiti con Galeazzo Bignami”, e Morrone, ossequioso, “certo, grazie Giorgia”. E qui sta il senso del ribaltamento dei ruoli e dei rapporti di forza: perché il Bignami in questione, deputato bolognese di FdI, era quello che andava in giro a fotografare i cognomi stranieri sui campanelli sotto le Due Torri, nell’inverno del 2019, cercando invano di occupare lo spazio che allora era di Salvini, che infatti proprio a Bologna, di lì a qualche settimana, davanti a un citofono si sarebbe guadagnato ben altra visibilità.
E’ questa insomma la mappa del malcontento padano. E’ unendo questi molti epicentri della protesta che si tenterà di far partire l’onda d’urto che dovrebbe far traballare Salvini, se davvero i sondaggi che circolano, e le percezioni diffuse tra i parlamentari, dovessero confermarsi in un fallimento nelle urne, con un consenso che oscilla paurosamente intorno al 10 per cento, e tende a scendere non poco. Il tutto, possibilmente, aspettando Fedriga. Che a differenza di Luca Zaia, inappuntabilmente cauto e tentennante, ha deciso che sì, la partita per conquistare la guida del partito vorrà giocarsela. Ma prima dovrà puntellare la sua ricandidatura come presidente del Friuli-Venezia Giulia. Si vota ad aprile, e Fedriga sa che difficilmente otterrebbe una riconferma scontata se a quella scadenza ci arrivasse da liquidatore del salvinismo. “Anche perché pure lì FdI ha le carte in regola per risultare primo partito”, dice Walter Rizzetto, meloniano pordenonese. E se la Lega ci arrivasse in frantumi, alla primavera prossima, non è affatto detto che si garantirebbe il diritto a esprimere il candidato del centrodestra. Ma davvero si potrà prolungare l’agonia della Lega per sei, sette mesi, in attesa che gli eventi maturino tra Trieste e dintorni? “Intanto facciamo partire i congressi provinciali e regionali – sibilano i colonnelli più arrabbiati – e poi vedremo”.