L'ULTIMO COGNATO

Da Craxi a Fini, intrecci di famiglie e potere. Ma Lollobrigida, marito della sorella di Meloni: “La mia storia è diversa”

Simone Canettieri

“Sono parente da una vita”, scherza il capogruppo di Fratelli d’Italia. Si riferisce alla mitica Lollo, nipote del fratello del suo bisnonno. All’inizio Francesco fu il capo di Giorgia, poi vennero eletti insieme alla  provincia nel 1998: “L’usciere le disse che i bambini non potevano entrare”

"Sono parente da una vita". Risata. Sorsata di tè verde. Forse è autoironia preventiva. Sarà l’abitudine. D’altronde, prima di diventare l’ultimo grande cognato d’Italia, Francesco Lollobrigida, con quel cognome lì, da quando è nato si arrampica sull’albero genealogico. Sorella 1 e sorella 2, Arianna e Giorgia Meloni, ancora non marciavano nella sua vita. In principio fu Gina Lollobrigida. “Allora, devo chiamare a casa perché nemmeno io me lo ricordo con precisione. Ecco sì: il nonno di mio padre, Nazzareno, e suo nonno, Luigi, erano fratelli”. Certo, la Bersagliera del cinema. Nonché candidata a 95 anni, con femore rotto da poco e operato, per le truppe rossobrune di Marco Rizzo (Italia sovrana e popolare). Rapporti tra i due: inesistenti, al di là di questo laccio che li lega da 50 anni. E cioè l’età di mister Lollo che dalla famosa parente ha forse preso il gene buono, lineamenti gentili. Per via di questa faccia da attore di soap americana, ovviamente trumpiana o al massimo reaganiana. (“Iniziarono a chiamarmi Beautiful quando facevo politica all’università: era il mio nome in codice per sfuggire alle rappresaglie dei compagni che attraverso le vere identità poi ti aspettavano sotto casa”, racconta come se fossimo nella coda di un film di Marco Tullio Giordana). 

 

E comunque rimane una parentela di serie C, quella con la Lollo nazionale adesso in versione comunisti italiani, rispetto al futuro che attenderà all’uscio l’attuale capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, prossimo ministro, o forse no, di un probabile governo made in Garbatella. Insinuazione pragmatica: e se proprio l’unione con la sorella maggiore della capa della destra – da cui sono nate le “super figlie” Vittoria e Rachele, più difese e coccolate dal papà di qualsiasi blocco navale – gli chiudesse la porta di un ministero? “Non smanio, chi mi conosce lo sa bene. Sono a disposizione della nostra comunità”. Provocazione: o della famiglia? “Di sicuro, nella prossima legislatura FdI avrà tanti parlamentari, molti dei quali al debutto, magari servirà in Aula una guida esperta”, dice per far capire che l’idea di rifare il capogruppo non gli dispiacerebbe. Nei suoi sogni ci sono il Viminale e la Difesa, c’è chi lo piazza anche ai Rapporti con il Parlamento. Per un attimo parte la frizione della curiosità che manda fuori strada: “Con chi mi scrivo di più durante la giornata fra Giorgia e mia moglie Arianna? Beh, direi con Giorgia”. E se litiga con sua moglie, Giorgia interviene con urla tipo convention di Vox a Marbella? “No, assolutamente. Con il tempo, gli animi di tutti si sono calmati: gli ambiti sono ben divisi”.

 

  
Piano. Questo tè verde va bevuto con calma. Dentro c’è l’infuso di una storia italiana che si ripete, ma mai uguale a sé stessa. Cambiano i profili e le traiettorie dei protagonisti. Ma il tinello rimane sede di vertici informali. Consanguinei come estensione del “parla con lui è come se avessi parlato con me”, appendici familiari e familistiche del potere, le lingue cattive che si divertono a raccontare i segreti di carriere sfavillanti. Tuttavia di pane, amore e poca fantasia è pieno l’album dei cognati. Carlo Sama e Raul Gardini nell’imprenditoria e nella finanza. Di esempi se ne trovano in tutti gli ambiti, non c’è dinastia che si salvi. Senza nemmeno pensarci troppo, la Prima e la Seconda repubblica ce ne consegnano subito due: immortali e diversi, lucenti e scalcagnati. 

   
Prima gli esempi buoni. Paolo Pillitteri voleva lavorare nel cinema e a un certo punto militò anche nel Partito socialdemocratico, pensa un  po’. Incontrò un bel giorno al primo anno di università Rosilde Craxi e, dopo poco, il di lei fratello Benedetto, non ancora Bettino. Pillitteri diventerà il sindaco socialista della Milano da bere (1986-’92). Rimpianto e riabilitato dalla storia. Ai tempi della grande parentela, di garofani ammantata, firmava i comunicati stampa così: “Paolo Pillitteri (cdc)”. Cognato di Craxi. Lo scriveva lui direttamente, per evitare, diceva sorridendo, la fatica ai giornalisti. Si divertiva così. Sdrammatizzava per diluire i veleni. Ha vissuto la politica di luce e tenebre riflessa, vista la gigantesca ombra che gli si è sempre parata davanti al suo cammino. Pillitteri non ha mai abbandonato Craxi. Anche se gli proibirono di volare ad Hammamet per il funerale. Anche se lo scorso 15 giugno, a 81 anni e vedovo da cinque, si è sposato di nuovo. Questa volta con la giornalista Cinzia Gelati. Nozze celebrate dal sindaco Beppe Sala. Presenti alla cerimonia anche i nipoti Bobo e Stefania, fratelli diversi. Dettagli di una epopea cognatesca pacificata e destinata alla memoria imperitura, nonostante le curve accidentate della Storia. “Senza Bettino non sarei diventato sindaco”, ha sempre ammesso candido “il Pilli”. Il primo fu sempre avanti e ben in alto lassù, irraggiungibile; l’altro subito dietro, ma senza sfigurare. Senza per forza dare l’impressione di colui che raccoglie da terra le mollichine di successo cadute al capo famiglia. 

  

Non pensa che entrerà nel governo made in Garbatella: “Mi piace fare il capogruppo”. Le liti con Giorgia e l’endogamia di una comunità chiusa 

  

“L’argomento del cognato è usato da chi non mi conosce, da chi non sa la mia storia. Per non parlare dei tanti casi di mariti e mogli che si trovano a sinistra”, ripete Francesco Lollobrigida a cui brillano gli occhi azzurri quando parla di politica. Al punto di affermare che lui “è pagato per fare una cosa che farebbe anche gratis”. Quando la parentela è diventata un fatto di dominio pubblico, raccontano che all’inizio Lollo prendesse male gli articoli dei giornali. Tutti uguali fra loro quando si parlava di lui, tutti con lo stesso titolo. Facendo poi battute risentite ai cronisti se gli capitavano davanti.

 
Adesso dicono che ci abbia fatto il callo, forte di una legislatura in cui comunque ha gestito un gruppo di 36 deputati, unica pattuglia a rimanere sempre all’opposizione. 

 
Il problema però è che a destra, nella sua destra, il cognato rimane una categoria nefasta. Il presagio di sventure, il gatto nero, il quasi detonatore di una storia già travagliata e controversa di suo. L’unico che a momenti stava per riuscire nell’impresa sognata ancora oggi da Fratoianni e Letta: spegnere per sempre la fiamma. Tutta colpa di Giancarlo Tulliani, insomma. L’uomo che fu cognato due volte. Prima di Lucianone Gaucci, poi soprattutto di Gianfranco Fini. Si allenò con il primo e si perfezionò con il secondo. Fratello di Elisabetta, fidanzata di big Luciano, Tulliani diventò poco più che ventenne dirigente di calcio e la bionda sorella amministratrice unica: prima della Sambenedettese, poi della Viterbese, sempre in qualità di vicepresidente. Appartamenti in centro storico in comodato d’uso, Porsche parcheggiate sui marciapiedi, libertà di trattare e di dire in giro di gestire tante promesse del calcio. Nella Tuscia, questo Bel ami lo chiamavano “Elisabetto”. L’avventura pallonara terminò con la bancarotta del gran patron del Perugia, fallimento che diventò anche sentimentale. Tanto che i Tulliani cambiarono squadra e cavallo. Arrivò così l’allure di Fini, il grande capo della destra italiana, l’uomo di Fiuggi, l’erede di Giorgio Almirante. “Che però non ha mai avuto cognati”, come ebbe a rimarcare donna Assunta, quando ormai l’onta della casa di Montecarlo era scoppiata, lasciando fango e solo un grande ferito a terra. Oltre certo al sorriso pieno di riscatto dei colonnelli di An, che in tempi non sospetti davanti a un caffè avevano già capito molto. E poi come dimenticare le foto della Ferrari, lo strascico giudiziario con latitanza a Dubai di Tulliani. Che serie Netflix fantastica sarebbe. 

  

Pillitteri quando era sindaco di Milano si firmava cdc (cognato di Craxi). Il cognatismo a destra, con Tulliani, è visto come un gatto nero

  

Ecco perché l’ultimo cognato d’Italia, Lollobrigida, si sente strettissimo dentro a certi abiti. Nato a Tivoli, ma cresciuto a Subiaco, padre medico condotto di estrazione liberale, madre maestra con il cuore per il Msi. Due fratelli: Claudio che fa l’odontoiatra, di 12 anni più piccolo, e Maurizio, sacerdote salesiano di frontiera in quel di Genova, nel popoloso quartiere di Sampierdarena dove, ma questo lo dice il fratello politico, spiega ai ragazzi l’importanza sociale della formazione e del lavoro come riscatto in risposta al reddito di cittadinanza. Fine del comizietto. Altra sorsata di tè verde. Il curriculum di Lollobrigida racconta una passionaccia per la politica fin da quando aveva i calzoncini corti e iniziò a bazzicare la sezione “Paolo Dinella” nel suo paesino.  “Sono stato sempre eletto”, ripete a intervalli regolari. Da rappresentante del liceo in su. Da consigliere comunale a Subiaco fino al gruppo di FdI alla Camera. Per un periodo, e questa è divertente, è stato il capo di Giorgia Meloni: lui faceva il responsabile nazionale di Azione studentesca, lei quella della Capitale. I due, mentre con Arianna iniziava un lascia e prendi che diventerà stabile nel 2000 e giù di lì, siederanno vicini in consiglio provinciale con Silvano Moffa presidente nel 1999. “Il giorno dell’insediamento ci fermarono all’ingresso, a me e a Giorgia: eravamo due ragazzi, vestiti in maniera molto informale. L’usciere ci bloccò e ci chiese chi fossimo. Non voleva farci entrare. Allora gli spiegai che ero consigliere provinciale. Lui mi disse: va bene, salga. Ma i bambini qui non possono entrare: ce l’aveva con Giorgia”. Lollobrigida, poco attratto dalla mistica di Colle Oppio al contrario delle sorelle M., continuerà a scorrazzare per conto di An in giro per Roma e provincia, sempre con nuovi galloni sulle spalle. Fino all’anno dello switch: il congresso nazionale di Azione giovani, a Viterbo nel 2004, la svolta nella carriera dell’attuale aspirante premier. “Lì io e il mio migliore amico, Giovanbattista Fazzolari, ci mettemmo a disposizione  per gestire il post congresso: tattiche e strategie”. Partirà da qui l’ascesa della capa, storia ormai nota, e anche di Lollobrigida, che continuerà il suo percorso, passando anche dalla regione Lazio (dove in molti lo vedrebbero bene e vincente per il dopo Zingaretti, ma lui non ci pensa minimamente). Come ha raccontato a questo giornale Arianna Meloni, quando diede il primo bacio a quello che diventerà suo marito “io avevo 20 anni, lui 23. Giorgia 18”. E anche questa è una prova per sfatare il mito, in questo caso, del parente acquisito che a un certo punto fa bingo. Però, che storia. “Nel passato della destra c’è un pizzico di endogamia, questo sì”, riflette Lollobrigida per prendere l’album di famiglia da un altro verso. “Siamo una generazione intrisa di militanza e ideali, dunque ci sta che tra noi si siano creati molti rapporti e storie d’amore in un contesto comune”. Il capogruppo di FdI dice che per anni “fisicamente” non è potuto entrare nel quartiere rosso di San Lorenzo, nella Capitale. Altrimenti gli avrebbero fatto pelo e contropelo. Sicché alla fine sempre fra loro si vedevano e si innamoravano. Niente coppie fasciocomuniste da libro di Pennacchi, dunque.

 
La vita del cognato d’Italia inizia in palestra all’alba, zona Roma sud, tra Eur e Torrino. Un’attività a cui è legata tutta la famiglia per scaricare tensioni e magari non pensare che la giornata inizierà con una dichiarazione spettinata di Matteo Salvini a cui fare il controcanto. 

 
Ma è il rapporto, tra lei e lui, che va indagato. Si sente subalterno alla capa o si sente il numero due del partito? “Non esistono numeri due nel nostro partito”, dice, cercando di essere il più convincente possibile. Anche se è dura. Lollo è quello delle strategie e delle liste elettorali, l’uomo della penultima parola che spesso è comunque definitiva. E’ appassionato di numeri e percentuali, di leggi elettorali. Alle ultime comunali (quelle della tragica candidatura di Enrico Michetti in Campidoglio) un giorno si presentò a casa con uno studio, via per via, sui romani che percepivano il reddito di cittadinanza per capire dove Virginia Raggi avrebbe preso più voti. Assicura però allo stesso tempo di non avere mai avuto nulla a che fare con i soldi, i finanziamenti, gli investitori interessati a sostenere FdI. Gli è chiaro insomma che il minimo errore porterebbe giù anche Giorgia Meloni. Cognati petti il vincitor calpesta, scriveva Giacomo Leopardi per dire che le cose vicine in disgrazia vengono colpite insieme.

 
Ma insomma quanto è autonomo? “Le scelte che mi competono per il ruolo che ricopro le prendo in totale autonomia, poi certo se vengo a sapere o mi arrivano input esterni è normale che mi confronti con il presidente del partito”. Dicono che lui nelle riunioni, davanti cioè ad altra gente, non la contraddica mai. Sarà così? “E’ capitato di litigare, come è normale che sia. Ma più che per motivi politici era perché non ci eravamo chiariti su aspetti personali”. Raccontano che nella coppia il malizioso e borbottone sia lui, mentre la cognata, nonostante la nomea di dura, tenda a fidarsi. “Sì, è così. Ma solo perché sono più vecchio”. La tazzina è vuota. Rimangono i fondi del tè: chissà cosa prevedono per lui.

  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.