l'analisi
La storia di Giorgia Meloni, un saggio di dissimulazione
Dall’autobiografia alla campagna elettorale: il racconto che la leader di FdI fa di sé e del mondo è sempre giocato sul filo dell’ambiguità. Un buon senso di facciata con squarci su una realtà piena di rancore e senso di rivalsa
"Voglio raccontare chi sono davvero, senza menzogne e senza filtri". Quasi sempre chi promette di raccontare la vera storia di qualcosa è il regista, più o meno consapevole, di una spericolata operazione di manipolazione della realtà. La promessa formulata da Giorgia Meloni nelle prime pagine della sua autobiografia aiuta oggi, riletta a un anno di distanza dall’uscita in libreria, a comprendere il senso dell’operazione di marketing che la leader di Fratelli d’Italia sta portando avanti in queste settimane di campagna elettorale.
La scelta di una propaganda improntata al buon senso comune, la capacità di accantonare argomenti scomodi sostituendoli con posizioni ambigue e di facciata, l’abilità a dissimulare gli aspetti meno presentabili del passato e del presente della formazione politica che guida: c’era già tutto, o quasi, il senso della sua strategia elettorale nelle pagine di quel successo editoriale.
Il racconto inizia da lontano. La madre, innanzitutto. Una madre, scrittrice mancata di romanzi rosa (quasi 150 manoscritti nel cassetto!), cui deve molto, scrive Meloni. Prima di ogni cosa, la scelta di non abortire, nonostante il rapporto ormai compromesso con il compagno di allora, nonché padre di Giorgia. Quando Meloni scrive che “le istituzioni sono dalla parte di chi decide di tenere un bambino”, quando caricaturizza le posizioni di chi sostiene la legge 194 attribuendo loro la presunta intenzione di sostenere pratiche (del tutto inedite in Italia) come l’aborto a nascita parziale e la libertà di abortire al nono mese, è il suo inconscio ferito che parla, ancora prima che il suo emisfero cerebrale sinistro.
Il lettore, del resto, familiarizza presto con lo schema del paradosso e della mistificazione: l’universo dei suoi oppositori appare popolato da esseri umani egotisti e megalomani che vogliono a tutti i costi partorire un bambino a settant’anni, da uomini che pretendono di diventare madri, da gente capricciosa che vuole un reddito di cittadinanza anche potendo tranquillamente lavorare, da immigrati, ça va sans dire, che esigono la cittadinanza italiana anche se “hanno appena messo piede in Italia”.
Il racconto inizia da lontano. La madre, innanzitutto. Poi il padre, sempre assente, “ateo impenitente” e comunista
Poi arriva il padre. Figura mitica, perennemente presente anche perché ostinatamente assente. Un padre rimpianto, desiderato, odiato, disprezzato. Commercialista di Roma nord, “ateo impenitente”, irresponsabile comunista, che pochi mesi dopo la nascita di Giorgia abbandona la famiglia per veleggiare verso le Canarie a bordo di “una barca di nome Cavallo pazzo”: un nome, un programma.
Una “ferita ancora aperta”, scrive Meloni, che ha condizionato non poco le proprie scelte, a cominciare dalla decisione adolescenziale di aderire al Fronte della Gioventù. Anche perché lei, come rivendica orgogliosamente, è incline ad agire in una direzione o nell’altra per fare dispetto a chi osa insinuare il contrario. Una bastian contraria, insomma, che sin da piccola si impegna a liberarsi di quello scomodo fantasma paterno.
All’età di quattro anni, nel corso di un innocente gioco infantile condiviso con la sorella, Meloni provoca involontariamente (e inconsciamente) un incendio che rende di fatto inagibile la casa paterna alla Camilluccia nella quale viveva con la madre e la sorella, costringendole a trasferirsi vicino ai nonni materni nel quartiere della Garbatella. Per Giorgia Meloni quell’evento luttuoso ma anche rigenerante è il brodo primordiale attingendo al quale molti anni dopo troverà la forza per creare un nuovo partito sulle macerie della casa “abbandonata” dal suo padrino politico Gianfranco Fini.
Può darsi. Di certo, quella presenza-assenza paterna, quella difficoltà di fare i conti con un vuoto a suo dire incolmabile, è stata per la leader di FdI una palestra di dissimulazione: nei confronti del prossimo ma prima di tutto nei riguardi di se stessa. Per trent’anni, confessa candidamente, si è convinta che l’abbandono del padre fosse stato del tutto ininfluente nella sua vita: una menzogna a fin di bene, una versione edulcorata e distorta della realtà, raccontata ai suoi amici e compagni di strada ma innanzitutto a se stessa, che inciderà fortemente nel suo modo di leggere la realtà.
Un meccanismo oppositivo la porta a individuare nella famiglia tradizionale un punto centrale del suo programma
Anche in questo caso, il consueto meccanismo oppositivo la porta a individuare nella famiglia tradizionale, la famiglia che non ha mai avuto (e che ancora oggi, pur avendone le condizioni, non si concede evidentemente di avere), uno dei punti centrali del suo programma. Per convenienza politica, certo, ma anche per un puntiglio che ha a che fare ancora una volta con la tormentata eredità paterna. C’è del resto di mezzo il padre assente anche nella fede cristiana, una fede che Meloni – quanto strumentalmente lo giudicheranno i lettori (e gli elettori) – inserisce regolarmente nella sacra triade evocata a ogni comizio: Dio, patria, famiglia.
Non solo perché il padre era un “ateo impenitente”, come si è detto. Ma anche perché di fronte a un “Signore” che ha “cose più urgenti che occuparsi di me”, un Dio distratto che nel suo immaginario finisce per assumere le sembianze di un padre indifferente e assente (ancora lui), Giorgia Meloni, al netto di una manciata di sacramenti ricevuti tardi e senza convinzione, rivela che la sua fede personale si riduce a un’ossessiva tendenza a collezionare statuette di angeli, una versione primitiva e superstiziosa dell’angeologia cattolica insomma.
Che poi, come inevitabile che sia, il suo Harael, il personale angelo custode al quale ha sempre “rotto le scatole nella quotidianità”, si rivela essere nient’altro che una laicissima coscienza individuale, un grande e onnipresente Armadillo, direbbe Zerocalcare: nelle parole di Meloni, “quella voce che parla dentro di noi a volte come un controcanto, e della quale troppo poco spesso ascoltiamo i consigli”. Tra superstizione devozionale e autocoscienza psicanalitica, lo spazio per il sacro, sempre sbandierato ma sempre mal praticato, è davvero poco.
La stessa capacità mistificatoria di raccontare una versione edulcorata e distorta della propria storia personale si riflette nel ricordo dei suoi anni trascorsi nelle file del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Msi. Un luogo mitico nel quale un’intraprendente quindicenne, complici una madre “simpatizzante, forse a tratti anche militante della destra giovanile” e un odiato padre comunista, cercò e trovò accoglienza nei primi anni Novanta del secolo scorso.
Dalla sua rielaborazione postuma emerge il profilo di una comunità piena di “curiosità intellettuale”, “apertura mentale”, “libertà di leggere qualsiasi libro”, “mitezza”, “umanità”, “pietà”; un movimento composto di giovani sempre schierati “dalla parte della pace e dell’equilibrio tra i popoli”, pronti a battersi per la “resistenza in nome della libertà”.
I camerati missini degli anni 70, alcuni dei quali girano “tutt’oggi in tuta mimetica”, diventano campioni di mitezza
La “resistenza” evocata da Meloni, alla pari della “mitezza” e dell’“umanità”, sono ovviamente le virtù che, sin dai tumultuosi anni di piombo, hanno caratterizzato la lotta di sopravvivenza dei giovani camerati contro la sinistra violenta e prevaricatrice, una sinistra che “considera da sempre la violenza uno strumento legittimo da usare contro le organizzazioni di destra”, indelebilmente segnata da un’“ideologia totalizzante” fatta appunto di “sopraffazione, violenza e fanatismo”.
Così, in una versione della Storia degna di Alice nel paese delle meraviglie, i camerati missini degli anni Settanta, alcuni dei quali, per sua stessa ammissione, girano “tutt’oggi in tuta mimetica”, diventano campioni di pace e mitezza, vittime sacrificali della violenza prevaricatrice dei loro oppositori politici.
Se d’altra parte la parola fascismo e il sostantivo fascista vengono espunti dalla narrazione, brutti epiteti destinati a comparire, oggi come allora, solo sulla bocca dei propri avversari politici, ecco dunque che la persecuzione degli ebrei diventa qualcosa di incomprensibile, qualcosa che Meloni non è “mai riuscita a comprendere” per l’appunto, un avvenimento a-storico che accadde in Italia “durante il fascismo”, e non per esempio ad opera del regime fascista.
In modo analogo il razzismo diventa qualcosa che, tranne rare eccezioni, nulla ha a che fare con la storia della destra (“pure a destra esiste chi fa demagogia. E c’è persino chi si spinge a toni di disprezzo e venature razziste. Ma non è il caso mio e di Fratelli d’Italia”), essendo peraltro un fenomeno le cui radici affondano notoriamente “nella filosofia illuministica e progressista”, da imputare dunque semmai alla sinistra e alla sua vicenda storica. Qui viene in soccorso a Giorgia Meloni la fondamentale opera di Marco Marsilio, già senatore e deputato Msi e attuale presidente della regione Abruzzo, recente autore di Razzismo.
Un’origine illuminista, un saggio pseudo-filosofico in cui si legge che l’adesione di alcuni grandi intellettuali del Settecento come Kant e Voltaire a una cultura economica centrata sullo sfruttamento degli schiavi dimostra che l’Illuminismo fu una fucina di razzismo. Poco importa, a Marsilio (e a Meloni), che la condivisione di orizzonti mentali ampiamente diffusi nella società settecentesca non fece di quei filosofi dei paladini del razzismo, semmai degli uomini pienamente immersi nel loro tempo.
E poco rileva che, come molti storici appena più autorevoli di Marco Marsilio hanno dimostrato, fu la crescente sensibilità per i diritti dell’uomo affermatasi nella seconda metà del Settecento a favorire, accanto certo a fondamentali ragioni economiche, la lenta e tardiva estinzione ottocentesca della brutale pratica della schiavitù atlantica. Quel che rileva, nella versione mistificatoria della Storia portata avanti dalla leader di FdI, è dipingere la sinistra come sentina di ogni vizio della vicenda umana.
La chiave, l’unica, per accedere alla storia del Novecento, è d’altra parte quella dell’anticomunismo. Nulla più, nulla meno della vecchia propaganda berlusconiana. La fine della Seconda guerra mondiale non significò la vittoria della democrazia occidentale sulla Germania nazista e l’Italia fascista bensì il “baratto” della “nostra libertà e tranquillità”, acquisita al prezzo di consegnare “i popoli dell’Est Europa alla dittatura comunista”. Una versione parziale e alterata della Storia che si ritrova anche muovendo indietro nei secoli, dove Meloni si spinge con disinvoltura alla ricerca di simboli ed eroi capaci di supportare la sua proposta politica.
La chiave per accedere alla storia del Novecento è quella dell’anticomunismo. I simboli del fortino cristiano assediato
Così, ecco spuntare uno dietro l’altro, dalle pagine della sua autobiografia-manifesto politico, l’eroico re di Sparta Leonida e i trecento soldati sacrificatisi nella battaglia delle Termopoli contro l’Impero persiano; i guerrieri franchi guidati da Carlo Martello, vincitori della battaglia di Poitiers (732 d.C.) che fermò “la marea islamica che aveva già travolto la Spagna” (sic!); Costantino XI, ultimo imperatore di Costantinopoli, salito alle cronache per il “disperato tentativo di difendere la cristianità ortodossa”; gli eroi della battaglia di Lepanto (1571) che arginò l’avanzata turca; e ancora il re polacco Giovanni III Sobieski, meritevole di aver salvato, alla testa di “ussari alati” e cosacchi ucraini, la città di Vienna assediata dall’impero ottomano.
Tutti eroi di guerra, simboli di un fortino cristiano assediato dal nemico straniero e infedele. Utili per rinfrancare una società cristiana odierna “minacciata” – addirittura – dall’ombra di un “arcobaleno”, simbolo di un “marasma culturale” che “dietro la retorica dell’inclusione sconfina nella negazione della semplice realtà”. Nonché, naturalmente, da una politica migratoria incontrollata che, piuttosto che favorire gli africani, dovrebbe invece agevolare il ritorno di “quelli che hanno origini italiane”, a maggior ragione dal momento che “il loro arrivo non porterebbe nessun problema di integrazione”.
Giorgia Meloni ha un bel daffare nel tuonare contro chi usa la Storia in modo strumentale per “fare politica” e prendersela contro chi riempie i manuali scolastici di “frasi surreali e faziose”. La sua è una straordinaria operazione di dissimulazione, sempre giocata sul filo dell’ambiguità e delle silenziose connivenze, che tuttavia, appena sollecitata, rivela pericolosi squarci sul passato (e sul presente): su una realtà piena di rancore e senso di rivalsa. In questo davvero, come scrive a proposito della fondazione di Fratelli d’Italia, il libro di Giorgia Meloni “non tradisce gli ideali di una storia lunga settant’anni”.