Sicuri che sia stata una campagna elettorale bruttissima? Avercene campagne così
Avversari che dialogano. Poche demonizzazioni. E tentativi costanti (anche se goffi) di mostrarsi affidabili. Perché l’Italia del 2022 è decisamente diversa dall’Italia del 2018
Sì, insomma, qualche scaramuccia c’è stata, qualche scazzottata si è vista, qualche colluttazione non è mancata e oggi, che è il giorno di chiusura delle campagne elettorali, è forse anche l’occasione meno indicata per svolgere il ragionamento che vi stiamo per offrire. Ma a sessanta giorni esatti dalle dimissioni di Mario Draghi c’è una piccola verità che meriterebbe di essere affrontata e che riguarda una caratteristica pazza e forse unica di questa corsa verso il 25 settembre. E la verità è questa: una campagna elettorale come quella di oggi, con così pochi colpi bassi, con così pochi sfregi, con così poche demonizzazioni, con così tanti gesti di cavalleria, non si vedeva da tempo, e forse, a questi livelli, non si era mai vista.
Sarà perché tutti i partiti, o quasi, hanno governato insieme – e descrivere un partito con cui si è stati a lungo al governo come se questo fosse il male assoluto non è semplice, ovviamente. Sarà perché tutti i partiti, o quasi, hanno avuto una qualche esperienza al governo – compresa Giorgia Meloni che nello sfortunato governo del 2011, quello che portò l’Italia a un passo dal default, aveva un ruolo certamente più marginale dell’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti, ricandidato oggi con Fratelli d’Italia. Sarà perché anche i leader più descamisados, più populisti, hanno passato un pezzo della propria vita a Palazzo Chigi, come per esempio Giuseppe Conte e come per esempio Matteo Salvini, che oggi finge di non ricordarlo ma che di Conte è stato vice insieme con Di Maio per un annetto buono.
Sarà che tutti i partiti sanno che probabilmente con i partiti avversari potrebbero un giorno ritrovarsi nuovamente a collaborare. Sarà per tutto questo e per molto altro, ma alla fine basta scorrere rapidamente le agenzie in una giornata di fine campagna elettorale per accorgersi del fenomeno che vi stiamo descrivendo. Prendete per esempio Enrico Letta che ieri, a poche ore dal fischio finale, dopo aver passato molti giorni a dire che sì, Meloni è pericolosa ma non è fascista, ha trovato modo di dire, con fair play, che se è vero che Meloni non vuole più rinegoziare ma solo modificare il Pnrr significa che “ha cambiato posizione rispetto all’inizio”, e il sottinteso è che è una buona notizia.
Prendete per esempio Giorgia Meloni che, a poche ore dal comizio finale in Piazza del popolo, ha accusato il Pd di aver usato contro di lei nientepopodimeno che “tanta retorica” (solo questo: wow!). Prendete ancora Giuseppe Conte, che pur dicendo delle frasi sconnesse su Mario Draghi, rispetto al suo presunto silenzio su Putin, tu quoque, Conte, fili mi!, tiene a far sapere, come tutti gli antidraghiani incapaci di rivendicare fino in fondo il proprio antidraghismo, che comunque “il prestigio di Draghi non lo si mette in discussione”.
Prendete, ancora, Matteo Renzi, che ieri ha detto che “sarebbe scorretto e disonesto negare che Meloni è stata la prima ad avere una posizione atlantista contro la Russia”, nel centrodestra. Prendete anche Vincenzo De Luca, governatore della Campania, del Pd, che ieri, mentre attaccava la Lega, ha tenuto a far sapere che comunque Luca Zaia è “un amico personale”. E prendete anche Berlusconi, e la stessa Meloni, che ieri in piazza del Popolo a Roma hanno scelto per motivare i propri elettori lo stesso slogan che oggi porterà sempre a Roma in piazza del Popolo il Pd per motivare i propri elettori (Insieme per l’Italia di domani: speriamo almeno cambino i colori), e che da settimane quando devono colpire forte sugli avversari tendono ad attaccare più una generica parte politica (la sinistra) che uno specifico leader (Letta).
Il fair play però non c’entra. C’entra forse qualcosa di più interessante, di più profondo, di più carsico, che riguarda una consapevolezza simmetrica, che vale sia per i partiti di centrodestra sia per quelli di centrosinistra: la voglia di rassicurare, la voglia di non essere percepiti come degli urlatori, la voglia di non essere percepiti come dei tribuni e la consapevolezza di fondo che in Italia, parafrasando Flaiano, quando ci si conosce tutti, quando si è governato con tutti, quando si è alleati con partiti che hanno banchettato con gli avversari, più che vestire i panni dei puri, dei coerenti e dei rivoluzionari, tocca vestire i panni degli affidabili.
E dunque per la prima volta da molto tempo a questa parte pochi politici descrivono il proprio avversario come se fosse il veicolo di un’emergenza democratica. E per la prima volta da molto tempo a questa parte anche i giornali stranieri osservano la campagna elettorale con curiosità, concentrandosi sì sui personaggi (Meloni) ma anche sui contenuti e provando a scavare tra le proposte dei vari partiti candidati più degli altri a governare l’Italia per capire se davvero un cambio di regime potrebbe far sbandare l’Italia e magari anche l’Europa. I rischi ci sono, ovviamente, i candidati non sono tutti uguali, i programmi sono molto diversi, ma l’assenza di colpi sotto la cintura è indice di qualcosa di interessante: i pericoli ci sono, ma l’Italia del 2022 è molto diversa dall’Italia del 2018 e per quanti ostacoli ci siano sulla strada dell’affidabilità dell’Italia non ci sono minacce ai valori non negoziabili così evidenti da giustificare da una parte e dall’altra una solida opera di demonizzazione. Il voto andrà come andrà, ma avercene campagne così.