Franco congela la Nadef fino al voto, ma la Finanziaria resta un spettro. "Servirà un tecnico", dice Giorgetti

Valerio Valentini

Il ministro dell'Economia rinvia le riunioni sulla Nota d'aggiornamento al Def alla prossima settimana. Le tensioni sui dati in arrivo: il 2022 dovrebbe chiudersi intorno al +4 per cento, ma sul 2023 s'intravede già una tensione tra Via XX Settembre e l'Ufficio parlamentare di bilancio, che hanno previsioni diverse. Il ministro dello Sviluppo, intanto, non esclude una larga intesa per la legge di Bilancio, che sarà difficilissima

L’incontro, benché non fissato in agenda, era stato  annunciato. Perché gli ultimi dati dell’Istat, necessari a definire il trend  di fine 2022, arriveranno a Via XX Settembre  stamane. E però, dopo averci ragionato un po’, Daniele Franco ha deciso di rinviare tutto alla settimana prossima: della Nadef se ne riparla a urne chiuse, così da preservare i conti pubblici dalla buriana elettorale. Intento nobile, ma forse vano, se è vero che a destra è già partita la corsa al complottismo. Ad esempio Giancarlo Giorgetti non esclude che proprio la difficoltà a varare la  Finanziaria possa indurre  i recalcitranti ad accettare un governo tecnico, almeno per un po’.

Almeno, cioè, fino a che non si riuscirà a chiudere la sessione di Bilancio in modo ordinato. Evitando, così, non solo lo spauracchio dell’esercizio provvisorio, ma anche quello che il ministro leghista dello Sviluppo economico considera un pericolo perfino maggiore: utilizzare la prima manovra della nuova maggioranza per misurare la tenuta delle mirabolanti promesse elettorali. Del resto Giorgetti c’è già passato, ai tempi del Conte I: si partì con l’affronto all’Europa dei tecnocrati e si finì con i festeggiamenti sul balcone di Palazzo Chigi. E sì che allora, dal giuramento dei ministri al Quirinale al varo della legge di Bilancio passarono quasi cinque mesi. 
Stavolta, invece, la Finanziaria sarà il primo dossier che i nuovi arrivati a Palazzo Chigi dovranno gestire. E dovranno accettare di farlo, per quanto sia difficile da spiegare agli elettori, sapendo che di spazio di manovra per concessioni alla propaganda ce ne sarà ben poco.

E non che i dati che circolano al Mef siano così terribili, in verità. La crescita acquisita registrata a giugno si è attestata al 3,5 per cento, quattro decimali in più rispetto alle stime del Def, e lascia sperare per una chiusura d’anno col pil attorno al +4 per cento. “Forse – c’è chi si sbilancia al Mef – perfino qualcosa in più”. Il problema, semmai, riguarderà le stime per il 2023. Ad aprile il Def fissava un’aspettativa di crescita al 2,4 per cento, e la tendenza già allora si prefigurava al ribasso. Di quanto, lo si capirà nei prossimi giorni, e non sarà una scelta banale. Perché gli uffici del Tesoro, nelle ultime ore, ipotizzavano un +1 per cento di pil per l’anno a venire. Una previsione che tuttavia, sempre analizzando cifre parziali, secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio sarebbe troppo ottimistica, prospettando invece un 2023 con crescita prossima allo zero. Eccolo, insomma, lo spettro della recessione. Che s’aggiunge, però, a quello della cagnara politica. Dalle parti di FdI hanno già iniziato ad additare losche macchinazioni. Guido Crosetto parla di quasi 60 miliardi che Draghi accollerebbe al prossimo governo. Giulio Tremonti ha puntato al rialzo: sono 250, secondo lui, i miliardi che l’esecutivo uscente lascia, come “una pillola avvelenata”, in gestione a chi ne prenderà il posto. 

Nulla di vero, ovviamente. Di certo c’è però che nel corso dei primi tre o quattro mesi del 2023 andranno a scadenza molti dei provvedimenti emergenziali adottati da Draghi e Franco per affrontare la crisi energetica: se lo scenario non migliorerà, si tratta di almeno 30 miliardi di risorse che risulteranno di fatto vincolati. E poi, appunto, ci sarà l’effetto della minore crescita. Qualunque previsione troppo modesta verrebbe criticata dai vincitori delle elezioni come un’eredità tossica che Draghi ha voluto destinare al suo successore. Al contrario, però, una prospettiva più rosea potrebbe poi aprire, subito, un primo conflitto con gli organismi di controllo, magari a partire proprio dall’Upb e non solo, con possibili tensioni sullo spread. Il tutto, nei giorni che seguiranno immediatamente il voto, e che saranno travagliati dall’ansia delle consultazioni e delle trattative annesse. 

Ma in fondo, qualunque premura ulteriore sarebbe inutile: lo scontro sui conti è destinato ad accendersi. Draghi e Franco hanno prima correttamente deciso di inserire nella Nadef i soli dati tendenziali, lasciando il programmatico a chi arriverà; poi hanno ritardato la pubblicazione del documento, per salvaguardarlo dal fuoco incrociato degli ultimi giorni di campagna elettorale. Ma al dunque, con le finanze pubbliche tutti dovranno fare i conti. E se l’operazione dovesse apparire davvero troppo ardua per chiunque, chissà che la profezia di Giorgetti, quella di una tregua di qualche mese (mese?) sotto l’egida di un governo tecnico per il varo della legge di Bilancio, non prenda consistenza.
 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.