Meloni s'inventa (quasi)europeista per un giorno. Ma Salvini: "Ora le rinfacciamo tutto"

Valerio Valentini

La capa di FdI evita di polemizzare con Von der Leyen: "Non recito la parte che vogliono assegnarmi". Com'è nata strategia del silenzio. Intanto il capo della Lega torna barricadero

Tace. E nel farlo, prova a lanciare il suo messaggio più forte, lei che pure non disdegna affatto lo slogan gridato. Confida nella forza dei numeri per vincere la forza dell’evidenza. “Imporremo la nostra posizione in virtù dei nostri voti”: è questa la scommessa di Giorgia Meloni. Ce l’ha con gli alleati, prima ancora che coi nemici. Perché forse la coincidenza è diabolica, ma alla vigilia di un voto che potrebbe incoronarla premier, la capa di FdI si ritrova bizzarramente isolata nella sua pretesa, forse nella sua posa, di (quasi) europeismo. 

E per quanto questo rappresenti un’opportunità, forse perfino l’approdo a lungo vagheggiato, lei trattiene il fiato come fa chi si ritrova su un equilibro precario. “Che fanno gli altri?”. Questa è stata la prima preoccupazione della Meloni, giovedì sera. Attendeva che fossero Salvini e Berlusconi, i primi a replicare. Perché, quello è parso chiaro subito, le parole di Ursula von der Leyen – quell’allusione al ricorso di “strumenti” (“We have tools”) da parte di Bruxelles nel caso di scantonamenti da parte del nuovo governo italiano sul sentiero tracciato dello stato di diritto – meritavano una risposta. Che però quella risposta dovesse essere il silenzio, è stata l’intuizione maturata nella “cabina d’emergenza”, così la chiamano a Via della Scrofa, convocata col fattaccio appena successo. “Se pensano che ora mi metta a rispondere a brutto muso, giocando esattamente la parte che vogliono assegnarmi, si sbagliano”: questo è stato il senso del suo ragionamento.

Ma ora, a due giorni dal voto, c’è da misurare le parole. Quelle della Von der Leyen, di per sé, non sarebbero neppure così clamorose. Ma dette così, a due giorni dal voto, e soprattutto pronunciate a Princeton, negli Stati Uniti, con la bandiera a stelle e strisce alle sue spalle, assumono tutto un altro significato. E non è un caso, del resto, che arrivino nelle stesse ore in cui dalla Casa Bianca si fa sapere che lì si attende di conoscere il prossimo premier italiano per “prendergli le misure”. “Vogliono pesarci”, dice Meloni. E allora tace, attende che da Bruxelles arrivi l’inevitabile chiarimento: “Von der Leyen ha corretto l’interpretazione data dalla stampa italiana secondo la quale quelle parole sarebbero stata un’ingerenza sulle elezioni italiane. Sarebbe stata una cosa, francamente, fuori misura rispetto al ruolo della Commissione”. Eccolo, alla fine, il garbatissimo commento di Meloni. 

Nel frattempo, però, tutt’intorno a lei, nel centrodestra s’è scatenato il putiferio. Il Cav. lo fa malgré soi: la stanchezza, lo sfinimento per una campagna condotta comunque in prima linea, nonostante gli 86 anni, lo portano a rinnovare, quasi in un moto spontaneo del cuore, le sue parole di comprensione verso Putin. E tanto basta perché mezzo Parlamento europeo insorga, Ppe compreso, e Zelensky commenti indignato (“Si fida dunque dell’assassino di Mosca?”). Salvini, invece, la cagnara la alimenta di proposito. Già dal mattino dirama l’ordine di attacco a tutte le truppe: fuoco a volontà su Ursula. “Roba da matti, questa è una bulla, ci minaccia. Draghi chieda chiarimenti”. Figurarsi. Poi, non pago, organizza un sit-in sotto la sede romana della Commissione, a due passi dal Quirinale. Ma anche qui c’è un calcolo: opposto a quello della Meloni. “Per un anno e mezzo – è sbottato il capo della Lega coi suoi confidenti lumbàrd, giorni fa, il capo della Lega –  mentre noi stavamo al governo con Draghi, lei ha fatto opposizione solo per logorare me. E adesso…”. E adesso i ruoli s’invertiranno: sarà lui, da lunedì, a incalzarla, a rimproverarle ogni tiepidezza, ogni abiura, proprio ora che lei deve recitare invece il ruolo di quella brava, responsabile. “Giorgia, ma come? Non ti riconosco”. Un copione già scritto. 

Meloni lo sa, e un po’ lo teme. Sa che sarà difficile reggere l’urto di un cannoneggiamento quotidiano, e non ci sta a passare per la pavida. Ed è per questo che spera nella forza d’urto delle urne: è convinta che se annichilirà i suoi alleati, se davvero potrà intestarsi, lei sola, il successo della destra, allora sarà al riparo da ogni insidia interna. Sperando però che la forza dei numeri (suoi) non inneschi quella della disperazione (di Salvini e del Cav.): perché, per quanto ammaccati, ciascuno dei due avrà almeno una ventina di senatori a disposizione. E tanti basterebbero per mettere a rischio il destino di Giorgia. 

 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.