Al Meeting dibattito elettorale con Letta, Salvini, Lupi e Meloni in collegamento da casa (LaPresse) 

Luci del varietà

Questa campagna elettorale è uno show, e il consenso è sempre più volatile

Michele Magno

Ma quale pericolo dell’uomo (o donna) forte al comando. Per G. B. Shaw, esistono cinque tipi di bugie, ma aveva dimenticato i programmi elettorali, che non devono essere credibili, ma gradevoli

All’inizio del Novecento l’avanguardia futurista italiana esaltava il varietà perché meraviglioso ed eccentrico, antintellettuale e popolare, capace di stupire, divertire, emozionare, abbindolare gli spettatori con la rapidità e il sensazionalismo del suo messaggio. “Il teatro della sorpresa”, come titolava il manifesto firmato da Filippo Tommaso Marinetti e Francesco Cangiullo nel 1921, doveva perciò gettare alle ortiche ogni scoria élitaria e diventare alogico, irreale. Artificio, comicità, imprevedibilità, testi scarni e insignificanti personaggi erano i canoni e i valori della drammaturgia futurista. Nel 1961 Martin Esslin pubblica The Theatre of the Absurd, dove campeggiano i nomi di Samuel Beckett, Eugène Ionesco, Jean Genet, capostipiti di un genere letterario celebre per il suo humour grottesco, le sue atmosfere surreali, il suo linguaggio ripetitivo, frammentato, privo di senso. 

  
Passando dal teatro al cinema, si intitola “Hostaria!” il sesto dei quattordici episodi del film “I nuovi mostri” (1977). Diretto da Ettore Scola, il cortometraggio è ambientato in un’umile e rustica bettola romana, dove il cameriere e il cuoco, proprietari del locale (due grandissimi Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman), litigano furiosamente in cucina per questioni di gelosia, fino a insudiciare il minestrone in cottura tra sberle, sputi, lancio di cibo di ogni specie. L’inverosimile zuppa risulta comunque gradita a un gruppo di commensali capitolini d’alto rango. Ecco, si può ragionevolmente affermare che la campagna elettorale che chiude la diciottesima legislatura è stata il palcoscenico di ambedue i generi di spettacolo. 

     
Secondo un noto aforisma di George Bernard Shaw, esistono cinque categorie di bugie: la bugia semplice, le previsioni del tempo, la statistica, la bugia diplomatica e il comunicato ufficiale. Il drammaturgo irlandese aveva però dimenticato i programmi elettorali. Del resto, da che mondo è mondo questi non devono essere credibili, ma gradevoli. Se poi promettono anche il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci (meno tasse e più soldi per tutti), diventano perfino evangelici. All’albero della cuccagna nazionale sono stati così appesi doni antichi e nuovi di zecca. Solo per citarne alcuni tra i più sensazionali: le dentiere in omaggio per gli anziani e le pensioni minime a mille euro di Silvio Berlusconi, il riscatto gratuito della laurea e la riduzione di quattro ore della settimana lavorativa a parità di salario di Giuseppe Conte, la mensilità aggiuntiva per il lavoratori dipendenti di Enrico Letta. Più in generale, non c’è partito che non voglia aumentare l’occupazione e le retribuzioni, ridurre il cuneo fiscale e gli impieghi precari, aiutare i giovani e le imprese. Mancano nella maggior parte dei casi indicazioni precise sulle coperture finanziarie? Niente paura. Ci penseranno la lotta all’evasione fiscale e il mitico scostamento di bilancio. 

 
Che i programmi elettorali siano concepiti alla stregua della promozione pubblicitaria di un prodotto lo aveva capito già alla fine dell’Ottocento una singolare personalità del suo tempo, Gustave Le Bon. Medico, scienziato, esploratore, autore di numerosi trattati di medicina, antropologia, fisica, archeologia, etnologia e pedagogia, nel 1895 diede alle stampe un volume, Psicologia delle folle, che nei primi trent’anni del Novecento gli procurò una fama internazionale. Il presidente americano Theodore Roosevelt, i presidenti del Consiglio francesi Aristide Briand e Georges Clemenceau, Benito Mussolini si dichiararono pubblicamente suoi ammiratori. Il suo libro fu studiato da Lenin e da Kemal Pascià Atatürk, il fondatore della repubblica turca. E’ molto probabile che il giovane Adolf Hitler ne abbia letta a Vienna la traduzione tedesca del 1908. Ed è altrettanto probabile che Charles De Gaulle, quando era un giovane ufficiale dell’esercito francese, ne abbia avuto una copia tra le mani. 

  

Il candidato può promettere “le più imponenti riforme. Le promesse esagerate producono un grande effetto e non impegnano per l’avvenire”

  
Nella società di massa, sostiene Le Bon, i governanti dovevano fare i conti “con una potenza nuova, la più recente sovrana dell’età moderna: la potenza della folla”. E nella folla “le attitudini coscienti, razionali e intellettuali dei singoli individui si annullano, e predominano i caratteri inconsci”. Così, quando è assorbito dalla folla, l’individuo “scende di parecchi gradini nella scala della civiltà. Isolato, era forse un individuo colto; nella folla è un istintivo, e dunque un barbaro. Ha la spontaneità, la ferocia, e anche gli entusiasmi e gli eroismi degli esseri primitivi”. Insomma, la folla è “un gregge che non può fare a meno di un padrone”. Convinto che i popoli abbiano sempre bisogno di una guida carismatica, l’inventore del cefalometro tascabile (strumento per misurare il cranio) considerava la maggior parte dei capi politici “retori sottili, che mirano all’interesse personale e cercano il consenso lusingando i bassi istinti”. Lo stile retorico più efficace, quindi, si basa sull’affermazione secca, svincolata da ogni ragionamento e da ogni prova, e sulla sua ossessiva ripetizione. Solo in tal modo è possibile influenzare la folla, che è un agglomerato di persone geneticamente predisposto – come ben sapeva Napoleone – a lasciarsi suggestionare da parole, formule e immagini estremamente semplificate. 
Questa capacità di colpire l’immaginazione della folla è risolutiva nelle elezioni politiche. Il candidato può promettere “senza timore le più imponenti riforme. Le promesse esagerate producono sul momento un grande effetto e non impegnano affatto per l’avvenire”, perché l’elettore non si preoccupa mai di sapere se l’eletto ha rispettato i suoi impegni. Inoltre, il candidato che aspira a diventare un leader deve possedere soprattutto il prestigio, “l’elemento fondamentale della persuasione”, “la molla più forte di ogni potere”. E a formare e rafforzare il prestigio, che è quel “fascino che un individuo, un’opera o una dottrina esercitano su di noi”, contribuisce molto il successo: “L’uomo che ha successo, l’idea che si impone, cessano, per questo solo fatto, di essere contestati”.

 
Le Bon era un liberale conservatore che temeva la disfatta del regime parlamentare nell’èra delle masse, perché “i capi tendono oggi a sostituire progressivamente i pubblici poteri via via che questi si lasciano contraddire e indebolire”, poiché essi – grazie al potere conferito dal consenso popolare – “ottengono dalle folle una docilità molto più completa di quella mai ottenuta dai governi” (Psicologia politica, 1911). Quando scriveva le sue tesi, non c’era ancora la radio come canale di intrattenimento. Il cinema faceva i suoi primi passi, muti. E la televisione e internet non erano neppure immaginabili. Tuttavia, aveva intuito le potenzialità della leadership carismatica, a cui più tardi Max Weber dedicherà pagine magistrali. Con ciò presagendo l’irruzione, dopo pochi anni in tutta Europa, di demagoghi visionari e magnetici. 

 

Per quanto essi facessero largo uso della propaganda di stampa e, da un certo momento in avanti, della radio, il loro appeal sulle folle era mediato soprattutto dagli assembramenti fisici, dalle “adunate oceaniche”. Che cosa sarebbe successo – domanderà una fortunata pubblicità televisiva a proposito di Gandhi – se i capi carismatici avessero avuto a disposizione i moderni mezzi di comunicazione? Forse meno di quanto si possa immaginare. Infatti, come i guru del piccolo schermo e dei social network avrebbero imparato a proprie spese, i media hanno la capacità di rendere celebri in tempi rapidissimi un personaggio  e il suo messaggio; ma, in tempi altrettanto rapidissimi, possono logorarli e distruggerli.

  

Non sono certo pochi quanti, tra i suoi competitori, si augurano che la medesima sorte tocchi a Giorgia Meloni. Ma davvero nel Belpaese c’è un clima da anni Trenta e sta per prendere il potere una figlioccia del Duce? Non esageriamo, e non facciamo favori a “Yo soy Giorgia”. L’allarme democratico, almeno stando ai sondaggi, si è rivelata un’arma spuntata. La verità è che, quando crisi economico-sociale e discredito della classe politica vanno di pari passo, nasce l’invocazione dell’uomo (nel nostro caso, della donna) forte. E i suoi seguaci sono inclini a giustificare qualche “strappo alle regole”, purché serva a difendere il popolo dai nemici interni ed esterni, restituendo al paese ordine, sicurezza, sovranità. “Un uomo forte come Richelieu / ci porterebbe tutti quanti in porto”, è la filastrocca che veniva cantata nelle bettole parigine alla vigilia del colpo di stato del Brumaio (dicembre) 1799. A quel primo modello di stampo napoleonico si sarebbero poi ispirati molti protagonisti dei vari totalitarismi fioriti nel secolo scorso. E’ altrettanto vero, però, che qualsiasi sottile distinzione si voglia fare in materia di totalitarismo, il contrasto con la liberaldemocrazia rimane irriducibile. Ma è un contrasto che da noi non sembra infiammare i cuori di molti elettori. 

   

I media possono rendere celebri in tempi rapidissimi un personaggio e il suo messaggio; ma, in tempi altrettanto rapidi, possono distruggerli

  

Beninteso, la storia del nostro regime parlamentare è costellata di leader che hanno riscosso l’ammirazione e la devozione dei loro concittadini. Ma il leader è democratico, come ha osservato Giuseppe Galasso in un aureo pamphlet (Liberalismo e democrazia, 2013), solo se inscrive se stesso e la propria azione nella logica e nelle forme della democrazia, non se inscrive la logica e le forme della democrazia in quelle della propria azione e dei propri fini. In ultima analisi, l’uomo (o la donna) forte è un mito che riflette sempre una condizione di disagio dei cittadini. A essa si può reagire, parafrasando il titolo di un celebre libro di Albert O. Hirschman (Lealtà, defezione, protesta, 1982), denunciandone i rischi o disinteressandone. C’è però anche una terza possibilità: il “mi adeguo”, per codardia o per convenienza. Si tratta della massima espressione di lealtà verso il vincitore di turno, la vera alternativa sia alla defezione che alla protesta. Del resto, dopo i liberali per Salvini sono subito spuntati come funghi i liberali per Meloni. Ma chiunque progetti di conquistare il palazzo del potere è bene che se lo ricordi: per la sua ubicazione sui colli di Roma, notoriamente dal clima temperato, non sarà mai un Palazzo d’Inverno.

  

Dovrebbe saperlo per primo il Pd, su cui pure il termine “riformismo” non sembra  esercitare il fascino di una volta, tant’è che Letta si è vantato di aver chiuso definitivamente i conti con la stagione del Jobs Act e delle suggestioni blairiane. Quel termine, tuttavia, ha un’origine storica ben precisa. Viene introdotto in Inghilterra, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, nel corso della campagna per l’allargamento del suffragio universale culminata nel “Great reform bill” del 1832. La sua nascita, dunque, è legata alla storia della democrazia rappresentativa. Più tardi viene usato in contrapposizione al massimalismo rivoluzionario, per designare le politiche di welfare  delle socialdemocrazie europee. Il verbo della pianificazione economica e della società senza classi cede così il passo a una concezione secondo cui il capitalismo non va abbattuto, ma “civilizzato” attraverso correzioni graduali delle sue storture e delle sue disuguaglianze. 

  

Pure il termine “riformismo” non sembra esercitare il fascino di una volta. Letta si è vantato di aver chiuso i conti con la stagione del Jobs Act 

  

In questo senso, uno dei padri della socialdemocrazia tedesca, Eduard Bernstein, diceva che “il movimento è tutto e il fine è nulla”. Il Pd, in fondo, è stato creato con questa ambizione. Richiamandosi a Norberto Bobbio, il suo primo segretario Walter Veltroni sosteneva che “la sinistra, se è conservatrice, non è sinistra. Se difende l’equilibrio dato, con il suo carico di ingiustizie e diritti negati, viene meno al suo compito. Che è, non si abbia paura, un compito rivoluzionario, nel senso che proprio la tradizione liberale e socialista ha affermato”. La rivoluzione a cui alludeva era la “rivoluzione liberale” di Gobetti, e quindi precisava: “Rivoluzione non violenta e interamente democratica di chi cerca consenso e governo per mutare radicalmente, nel segno delle opportunità sociali e della pienezza delle libertà, l’ordine di cose presente”. Intenzione commendevole, ma largamente smentita dai fatti. E i fatti dicono che, senza una cultura politica condivisa, ci si può scoprire, in base alle convenienze del momento, favorevoli o contrari al bicameralismo perfetto, proporzionalisti o maggioritari, ecologisti o industrialisti, federalisti o centralisti, liberisti o statalisti. Il dovere del riformismo, insomma, è quello di fare le riforme, non di stare a Palazzo Chigi “a prescindere”, come direbbe Totò. Altrimenti esso indica un semplice recapito, un cognome che certifica l’albero genealogico: racconta da dove si viene, non dove si vuole andare. Questo nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, diventa l’espressione di un opportunismo spacciato per realpolitik.

   

Per concludere, mi piace citare le parole di una eminente figura del riformismo europeo, Jacques Delors, su cui dovrebbero riflettere tutti coloro che hanno a cuore il presente e il futuro delle forze progressiste: “Da Pierre Mendès-France ho imparato una grande lezione: è meglio perdere un’elezione che perdere l’anima. Un’elezione si può rivincere dopo cinque anni, che vuole che sia? Ma se si perde la bussola, o si perde l’anima, per ritrovarle ci vogliono generazioni”.

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