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dopo le elezioni

Buongiorno Ungheria. Un viaggio storico-culturale dentro un modello che ci conviene conoscere 

Paola Peduzzi e Micol Flammini

L’Europa è un bancomat, si seguono le regole utili a far arrivare i fondi, ma poi basta: fuori dai piedi. È questo l’antieuropeismo di Orbán e di Kaczynski, ispiratori della destra sovranista italiana

S’è chiacchierato così tanto di Viktor Orbán nelle ultime settimane che pareva che fosse candidato pure lui alle nostre elezioni. La destra italiana lo strattona di qui e di là da molto tempo, cercandone l’appoggio formale, poi la guerra della Russia in Ucraina ha stravolto, tra le tantissime cose, anche la rincorsa al premier ungherese: l’est dell’Europa non è più lo stesso dallo scorso febbraio, e nemmeno lo sono le coalizioni conservatrici del continente. Orbán però c’è sempre: citato, criticato, temuto, liquidato – vale tutto,  lui c’è. A prima vista tanta attenzione è bizzarra: l’Ungheria ha un pil che è un dodicesimo di quello italiano (un ventiquattresimo di quello tedesco, ma non infieriamo, nemmeno sull’Italia); ha 10 milioni di abitanti, cioè il due per cento della popolazione europea, in costante calo; ha più emigrati che immigrati anche se costruisce muri ai confini e blocca tutte le operazioni di riallocazione di migranti all’interno dell’Ue; è beneficiaria netta dell’Ue, cioè riceve più soldi di quanti ne versa, e ha 21 europarlamentari in un’istituzione che ne conta 705. Perché dunque è così conteso il premier ungherese, perché il suo benestare è tanto rilevante?

 

La risposta sta nella sua leadership e nella traiettoria della sua carriera, che ovviamente si è riverberata sul suo paese e sull’Unione europea, che funziona con l’unanimità e quindi basta un veto per dover avviare trattative e compromessi. Ma ancora prima di quel che pensa Orbán, il suo clamore è dato dal fatto che  è uno statista di successo. Ha vinto e rivinto le elezioni, ormai il suo partito, Fidesz, funziona come un partito unico in Ungheria, ma non è sempre stato così e quindi del premier si dice con insistenza: è bravo, ce l’ha fatta contro tutti gli altri. Gli americani trumpiani, da Steve Bannon in poi, si sono infatuati del leader di Budapest, corrono a trovarlo per farsi raccontare segreti e suggerimenti, lo invitano in America per sentirsi dire da uno che abita dall’altra parte del mondo e guida un paese che dipende dai soldi di un’istituzione sovranazionale che “l’occidente è in guerra con se stesso”, che il sovranismo è la formula vincente, e che “i globalisti possono andarsene tutti all’inferno”. Orbán è diventato un ideologo che, a differenza di  altri guru, può vantare successi elettorali e  offrire un modello di governo, di trasformazione concreta del paese, che ispira la destra italiana (e non solo) con diversi livelli di intensità ma con costanza nel tempo. Ma cosa vuol dire ispirarsi a Orbán  – o alla Polonia dell’ultimo quindicennio, anche lì c’è stato un processo simile, e il suo peso specifico è ben più rilevante? In Europa questa ispirazione viene chiamata “deriva” e preoccupa molto, come dimostrano le continue azioni di contenimento che vengono dalla Commissione e dal Parlamento europeo e come dimostra anche il monito della vigilia elettorale italiana di Ursula von der Leyen: la presidente della Commissione europea tenta di prevenire, perché sa che curare le democrazie illiberali è invero complicato.

 

L’ispirazione esiste e dura: in Italia ha assunto una forza maggiore che altrove, forse perché la coalizione della destra italiana riassume dentro di sé gran parte delle evoluzioni della destra europea. Ma cosa vuol dire svegliarsi in un paese che aspira a emulare l’Ungheria o la Polonia? Ci sono alcuni meccanismi visibili e comuni che mostrano come si mandano “all’inferno” i globalisti, come si affossano “gli incubi dell’integrazione europea” (il copyright è sempre di Orbán) e come si salva “una democrazia liberale ormai naufragata”. Il paroliere Orbán fissa dei punti: la deriva non è nostra, la deriva è dei liberali; chi sta naufragando sono le vostre democrazie, noi ci stiamo salvando. E’ in questo ribaltamento che sta la via tracciata dall’Ungheria e no, non sono solo parole. 

 

C’è un tratto che accomuna i conservatori ungheresi e quelli polacchi, che sono gli altri protagonisti di questa storia, in quanto sono stati a lungo un ponte – fino alla guerra: la guerra ha stravolto ogni cosa, nell’est Europa e pure in Italia – che univa la destra tradizionale e quella più estrema: all’inizio, questi leader, non erano così, non erano minacciosi, non erano ostili, volevano apparire tutto sommato innocui. Quando sono andati al potere, né Orban né i fratelli Kaczynski in Polonia erano particolarmente radicali: erano altri tempi, eravamo al tempo stesso meno attenti e meno sensibili, ma i segnali di una progressiva radicalizzazione erano comunque deboli. I Kaczynski sono i due fratelli gemelli che fondarono il PiS, acronimo che sta per Prawo i Sprawiedliwosc, Diritto e giustizia, perché nel 2001 erano convinti che la Polonia, che ancora doveva entrare nell’Unione europea, dovesse avere una destra più a destra, unicamente tradizionale, non un conservatorismo di stampo occidentale, ma autenticamente polacco. Nessuno dei due gemelli, né Lech – più esplicito e aperto – né Jaroslaw – meno estroverso ma adatto a muoversi dietro le quinte, avevano intenzione di lanciarsi in una crociata contro Bruxelles, erano favorevoli al cammino che avrebbe, finalmente, messo la Polonia accanto agli altri paesi europei dell’ovest.

 

Il percorso di Viktor Orbán è ancora più articolato. Quando vinse le elezioni nel 2010 era molto diverso da com’era nel 1998, al suo primo successo elettorale. Era diventato esperto, veniva da otto anni di opposizione, trascorsi a studiare tutti gli errori dei governi precedenti e dei suoi nemici politici, e a misurare l’umore degli ungheresi. Nel 1998, rimase al potere soltanto per due anni, era il primo ministro più giovane della storia del paese: otto anni dopo, era l’accanito e carismatico capo dell’opposizione che aveva lavorato con calma e astuzia alla propria rielezione. József Debreczeni, uno dei suoi primi biografi, aveva detto: “Una volta in possesso di una maggioranza costituzionale, la trasformerà in una fortezza inespugnabile del potere”. 

Nel 2010, con la crisi del debito, Orbán era l’uomo che avrebbe potuto curare tutte le delusioni ungheresi, anche l’ultima, che nasceva dallo sconcerto di  essere entrati a far parte di un’Unione che altro non era che un gigante con i piedi di argilla, economicamente fragilissimo. Davanti allo sgomento dei suoi connazionali, il premier ungherese iniziò lentamente ad avanzare le prime critiche nei confronti dell’Ue: era astuto, miscelava dialogo e ostilità, si mostrava duro ma gentile. Il suo era un modo per mettere le cose in chiaro, perché sì, l’Ue vedeva affiorare debolezze in ogni dove, ma per l’Ungheria la famiglia europea era ancora troppo utile. In un discorso al Parlamento europeo il premier spiegò a tutti, anche agli alleati del Partito popolare europeo (Ppe) di cui faceva ancora parte, che lui non credeva nell’Ue, ma soltanto nell’Ungheria. La sua considerazione dell’Ue si fermava al fatto che se a Bruxelles le cose vengono fatte per bene, allora anche l’Ungheria avrà il suo tornaconto. 

 

L’attenzione di Orbán era tutta per Budapest, aveva  saggiato l’umore dei suoi concittadini per anni, a quel punto doveva dimostrare di saperli accontentare. Avviò una riforma costituzionale che serviva a riaffermare la differenza degli ungheresi dal resto d’Europa, quella liberale. L’autore della riforma, all’epoca anonimo collaboratore del premier, era József Szájer che scrisse una Costituzione conservatrice, che ristabiliva la centralità della famiglia tradizionale e del cristianesimo nella società ungherese. Era l’architrave dell’orbanismo, il punto di partenza delle campagna a favore della famiglia tradizionale contro le famiglia “alternative”, quelle omosessuali. Però non è per la riforma che oggi il nome di József Szájer forse vi dice qualcosa. E’ lui l’ungherese trovato appeso a una grondaia mentre cercava di fuggire dalla polizia, arrivata a interrompere un festino in piena violazione delle restrizioni pandemiche. József Szájer, nudo, cercò di scappare ma fu preso in fretta e poche ore dopo a Bruxelles già tutti spettegolavano non soltanto dell’orgia in tempi di pandemia, non soltanto del fatto che ci fossero degli europarlamentari, ma soprattutto del fatto che l’europarlamentare presente fosse un ungherese ultraconservatore autore della Costituzione con cui venivano vietati i matrimoni gay in Ungheria. 

 

Con la stessa Costituzione, nel 2010, Orbán cambiò il nome al suo paese che da Repubblica d’Ungheria divenne Ungheria. E si mise a tessere la trama della sua democrazia illiberale, una democrazia elettiva governata come un’autocrazia soft (oggi il Parlamento europeo dice: “autocrazia elettorale”, ma Lega e Fratelli d’Italia non sono d’accordo), in cui lui vince, lui comanda, lui crea una rete istituzionale incentrata su se stesso. A questa Ungheria che si raggruma attorno all’orbanismo, l’Ue non faceva ancora caso: iniziava ad affrontare la crisi del debito interno, e comunque Orbán aveva addosso la coccarda dell’anticomunista, del devoto all’occidente che ringraziava Ronald Reagan ed Helmut Kohl per aver liberato l’Ungheria. Ancora oggi dice che l’ex presidente americano e l’ex cancelliere tedesco sono i suoi modelli, ma lo dice piano, perché è il testimonial di una nuova destra, applaudita dai trumpiani, applaudita dai nostri leader conservatori. 

 

Il secondo mandato di Orbán è iniziato nel 2014. Nonostante i generosi fondi europei, Fidesz non era un partito capace di amministrare bene il denaro, soprattutto perché il sistema clientelare che Orbán stava costruendo costituiva una perdita a livello finanziario. Questa destra più a destra stava prendendo piede in tutta l’Ue, ma Orbán ancora non era percepito come un problema dell’Ue. Orbán iniziava anzi a essere in declino. A far disamorare gli ungheresi erano soprattutto la corruzione e  le terribili condizioni delle scuole e degli ospedali. Ma è vero che Orbán ascolta il respiro dei suoi concittadini, che ne misura la temperatura, la rabbia e la paura. In passato un europarlamentare di Fidesz ci ha detto che senza la crisi dei rifugiati, Orbán le elezioni successive probabilmente le avrebbe perse. Infatti, è stato con la crisi dei rifugiati del 2015 che ha recuperato vigore, smettendo di essere un problema esclusivamente ungherese: diventa un ostacolo, manca la collaborazione, esacerba i discorsi sui migranti, parla di invasione, si trincera chiudendo il confine con la Serbia. “Come stato – ha detto a un Consiglio europeo – devi proteggere i tuoi confini. Non credo in una soluzione europea”. Ecco comparire il filo spinato alla frontiera. Sulla ridistribuzione delle quote dei migranti, che lui chiamava “una follia”, fece decidere gli ungheresi con un referendum, che non raggiunse il quorum, ma chi andò a votare votò contro. Si stava affermando come modello di un’Europa che non soltanto si rifiutava di essere solidale con i rifugiati, ma anche con gli stessi europei che chiedevano aiuto. 

 

In quel momento si spezza il patto di Orbán con l’Europa: è successo tutto piano, in mezzo a molte distrazioni, con la costanza di Budapest e la necessità dell’Europa di non risultare troppo invadente.

 

L’Europa vista dal feudo di Orbán è un mercato unico che funziona in modo efficiente, è un bancomat che elargisce fondi consistenti ed è una comunità economica di cui bisogna per convenienza essere parte. Tutto il resto  – l’integrazione politica, l’integrazione valoriale, la solidarietà, l’appartenenza, la collaborazione, l’unità di intenti – è nei migliori dei casi poco considerata, nei peggiori rifiutata. Questa idea, dell’Europa come un bancomat, che è al fondo l’imbroglio cui stiamo assistendo anche qui da noi, non è ungherese: è polacca. 

 

Kaczynski, in Polonia, è un marchio che per una parte del paese è certezza di stabilità, per l’altra parte del paese è terrore di un ritorno indietro sul piano dei valori e della democrazia. La corsa dei due fratelli, già conosciuti nel paese perché la loro carriera politica era iniziata diversi anni prima e perché da piccoli, biondissimi e intrepidi, avevano recitato in un film per bambini diretto da Jan Batory, fu rapida. Il partito piaceva anche perché aveva dichiarato la lotta al crimine, Lech era stato ministro della Giustizia e voleva riformare il codice penale, la loro era una battaglia tutta interna, per la sicurezza, per il futuro di una nazione ormai proiettata verso l’occidente, già membro dell’Alleanza atlantica, che aveva intrapreso un’entusiasta, forsennata rincorsa verso l’Europa. Nel 2006 Jaroslaw diventò premier e il suo mandato durò soltanto un anno; nel 2005 Lech venne eletto alla presidenza e per sedici mesi il marchio Kaczynski occupava, contemporaneamente, le due cariche dello stato promettendo sicurezza, tradizione, atlantismo e anche europeismo e una perenne lotta contro gli avversari politici, anche loro conservatori, per dimostrare chi incarnava meglio e con più convinzione gli ideali della Polonia anticomunista.

 

Varsavia non ha mai smesso di fare a botte con la storia, basti pensare che altri due cognomi celebri, un altro marchio della politica, sono Walesa e Morawiecki. Il primo è il cognome dell’uomo che ha fondato Solidarnosc e che ha combattuto per liberare la Polonia dal comunismo, finendo anche in carcere: ora ha un figlio in politica che però non riesce ad avere il successo del padre, vivace e ingombrante. Morawiecki è invece il cognome dell’attuale premier, Mateusz, anche lui del PiS, e di suo padre Kornel, un fisico prestato alla politica, che aveva iniziato con Solidarnosc, con Walesa, ed era finito ancora più a destra del PiS, nel partito del cantante Pawel Kukiz. Questi movimenti tumultuosi della politica in Polonia hanno molto a che fare con il passato, con una nazione che, un po’ come l’Italia, non sempre è stata disposta a fare i conti con l’eredità del passato. E il marchio Kaczynski ne è forse la dimostrazione più importante. 

 

La morte di Lech, nel 2010, è uno dei momenti più dolorosi della storia polacca recente: l’aereo presidenziale su cui viaggiava, diretto verso Katyn’, in Russia, dove avrebbe dovuto commemorare la strage commessa dall’Armata rossa contro ventiduemila polacchi nel 1940, esplose in volo. La Polonia in lutto nazionale si sentì stravolta, l’idea di una pacificazione post Guerra fredda con la Russia scomparve e l’idea dell’allora premier conservatore Donald Tusk di avvicinarsi al Cremlino di Vladimir Putin, che sembrava, a Varsavia come a tutto l’occidente, un presidente desideroso di colloquiare con Bruxelles e con Washington, crollò. La stranezza in Polonia è che i due partiti più votati provengono dal conservatorismo: per tutti gli anni Duemila il paese sia alla maggioranza sia all’opposizione ha avuto dei partiti di destra che, se all’inizio di dividevano per cose impercettibili, a un certo momento hanno incominciato a manifestare differenze sempre più palesi. Questo momento è il 2010: il PiS con Jaroslaw rimasto solo iniziò una campagna elettorale serrata, accusatoria nei confronti del premier Tusk, della Russia e anche dell’Unione europea. Da due anni era iniziata la crisi del debito, poi sarebbe iniziata quella dei migranti, Jaroslaw aveva capito – come intuì Orbán e come poi hanno capito anche le destre più destre d’Europa – che battere su economia e immigrazione era sicuramente utile per fomentare le paure dei polacchi.

 

Chi osserva la politica polacca da anni si divide in due filoni di pensiero: i malevoli credono che Jaroslaw si sia approfittato della morte del fratello, politico più amato di lui, per portare avanti una campagna elettorale piena di odio e di paure; e i benevoli ritengono invece che da un lato Jaroslaw non abbia mai superato la scomparsa di Lech, che era il meno estremista dei due, e dall’altro, libero dalla tutela del fratello, abbia trasformato il partito nel coacervo di stimoli nazionalisti e antidemocratici che ormai da dodici anni cercano di smontare lo stato di diritto in Polonia. Quando nel 2015 il PiS vinse le elezioni – presidenziali e poi parlamentari – per prima cosa Jaroslaw ringraziò suo fratello Lech e gli dedicò la vittoria. Lo slogan di quelle elezioni, come di quelle successive, era Dobra zmiana, buon cambiamento. Che un partito conservatore scelga la parola “cambiamento” per attrarre elettori poteva sembrare insolito: il PiS è il partito della tradizione, del ritorno alle origini, non della svolta in avanti.

 

Quindi Kaczynski e i suoi avevano deciso di connotarlo questo cambiamento: sarebbe stato buono, non cattivo, non macchiato di liberalismo come quello che stavano fomentando Tusk e gli altri, pronti a vendere la Polonia a Bruxelles. Varsavia, tra i paesi dell’Europa centro orientale, è stata l’esempio di maggior successo dentro all’Ue. Con una classe politica propositiva e dinamica, che si sentiva più europea di chiunque altro europeo che si aggirasse per le istituzioni di Bruxelles, aveva iniziato a essere molto ascoltata, tanto che quel Tusk che Kaczynski denunciava come la causa di tutti i mali polacchi era diventato presidente del Consiglio europeo. Esistevano e coesistevano in modo burrascoso due Polonie a Bruxelles e due a Varsavia, lentamente la voce della Polonia ascoltata, quella dello zelo europeista, ha iniziato a sentirsi sempre meno, e l’altra, quella euroscettica, votata allo smantellamento della sua democrazia ha iniziato a urlare sempre di più. 

 

Al Parlamento europeo, il PiS siede tra i banchi dei Conservatori e riformisti, il partito fondato dai Tory inglesi in odor di Brexit, il posto naturale degli exitari d’Europa che però, contrariamente ai britannici, ancora oggi preferiscono rimanere dentro all’Ue: si fanno meglio le battaglie dall’interno e con il denaro che arriva dritto dritto proprio da Bruxelles. Con l’uscita dei britannici, i polacchi sono diventati il partito più numeroso e hanno preso sotto la loro guida un partito promettente: Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Forti tra le schiere dei Conservatori e riformisti, i polacchi hanno però iniziato a perdere peso tra le istituzioni di un’Unione che ha cercato e cerca ancora il modo di non soccombere ai ricatti degli anti europeisti d’Europa. 

 

Nel 2015, quando Kaczynski era riuscito a vincere con una maggioranza che gli permetteva di essere saldo in Parlamento, la Polonia non aveva capito quale grande cambiamento avrebbe portato questa vittoria. In sette anni Varsavia ha subìto una riforma della Corte costituzionale tramite la quale i giudici non graditi al PiS sono stati epurati con l’accusa di aver collaborato in passato con il comunismo: il monopolio della storia è un elemento che torna sempre in Polonia e il PiS ha imparato a giocare con il passato, per utilizzarlo sempre a suo favore. Oggi la magistratura polacca si trova in modo pericoloso sotto il controllo della politica, o meglio, sotto il controllo del governo e non soltanto del PiS ma anche dell’altro partito di governo, Polonia solidale, e del suo irrefrenabile ministro della Giustizia, Zbigniew Ziobro, molto più a destra del PiS. Il governo è intervenuto in modo intrusivo nel diritto all’aborto: la Polonia, già prima della vittoria di Diritto e giustizia, era uno dei paesi in cui la legge che regolava l’interruzione di gravidanza era tra le più stringenti d’Europa, ora abortire è consentito soltanto in caso di stupro, incesto e pericolo di vita per la donna. Lo vieta invece per grave malformazione del feto, motivo per il quale prima era consentito, e la nuova norma prevede anche pene per i medici che praticano l’interruzione di gravidanza fuori dai confini previsti dalla legge, che però presenta anche parti poco chiare che sono già costate la vita a più di una donna.

 

La società polacca, vivace e litigiosa, ha sempre potuto contare su un’opinione pubblica attenta e attiva, che dal 2015 ha cercato di fare opposizione laddove i partiti di opposizione, disarmati dalla vittoria del PiS, sembravano inerti. Questa opinione pubblica intransigente e studiosa si anima sui giornali, nei salotti televisivi, ed è riuscita a infastidire il permalosissimo Kaczynski. I media liberi e il pluralismo sono la prima cosa che i paesi illiberali tollerano male. Il PiS ha prima sistemato nella televisione di stato un direttore molto fedele, che ha fatto un piano informativo martellante, una propaganda cadenzata, accanita, che valica spesso i confini tra verità e post verità. Poi il governo ha messo giù alcune leggi che riuscissero a rendere sempre più complessa e meno redditizia l’esistenza delle testate avverse, che sopravvivono tra mille problemi.

 

Per quanto l’Europa, che aveva già il suo bel da fare con l’Ungheria, abbia cercato di sminuire la deriva illiberale polacca, che confrontata con quella di Budapest sembrava poca cosa, il peso di Varsavia a Bruxelles si è fatto sempre più evanescente: dall’essere gli entusiasti costruttori della nuova Europa, i polacchi erano diventati i grigi distruttori da non ascoltare, da emarginare e soprattutto da tenere sempre d’occhio. Poco importava al PiS se l’Ue sbraitava e chiedeva di rispettare lo stato di diritto, tanto c’era sempre quel predecessore illustre di Orbán, contro il quale non soltanto Bruxelles non aveva mai mosso un dito, ma che era rimasto comodo, al caldo, fianco a fianco con il partito di Tusk, nel Partito popolare europeo. Il meccanismo di erogazione dei fondi europei, che ha nutrito i governi sovranisti dell’Europa centro orientale, sembrava irriformabile. Almeno fino all’arrivo della pandemia, quando con il Next generation EU, il fondo per la ripresa degli stati europei, sono arrivate nuove clausole più stringenti, legate a un programma di adempimento di vari criteri europei.

 

In Polonia, in particolare, l’erogazione della prima tranche dei 35,4 miliardi di euro, che dovrebbe ricevere Varsavia, erano legati alla riforma della magistratura. Il PiS, che vede legato a quel denaro anche l’esito delle future elezioni del 2023, aveva provato a presentare una riforma cosmetica che non sarebbe mai passata, se la Russia non avesse invaso l’Ucraina. 

 

Dal 24 febbraio, giorno dell’attacco di Mosca contro Kyiv, Varsavia è stata uno degli elementi trainanti dell’Europa inizialmente intimidita. Nell’attacco russo, nella necessità di creare un fronte europeo contro Mosca, il governo, il premier Morawiecki, il presidente Andrzej Duda si sono riscoperti europeisti, hanno ritrovato nell’emergenza la vocazione che avevano perso. Mentre a livello internazionale Varsavia si presentava come la leader dell’accoglienza degli ucraini in fuga, lo sponsor di Kyiv tra le istituzioni europee, la voce più forte, più insistente nel convincere i colleghi europei a prendere delle posizioni rigide contro Mosca – il tutto miscelato con una dose da non sottovalutare di “noi ve lo avevamo detto, ricordate Katyn’?” – in patria continuava però lo smantellamento della democrazia. Morawiecki è andato a Kyiv, Duda è andato a Kyiv, Kaczynski, malandato, è andato a Kyiv.

 

Varsavia ha mandato armi e aiuti, tanto movimento, tanta solidarietà non potevano rimanere senza un premio e Bruxelles, nonostante il governo non abbia mai messo mano alla controversa riforma della giustizia, ha sbloccato i fondi del Recovery fund. I polacchi del PiS, con l’austero Kaczynski, sono sempre stati meno rumorosi rispetto al premier ungherese Orbán nel condurre le loro lotte all’Ue. Internamente hanno sempre agito come volevano, ma spesso ostacolati da una popolazione pronta a scendere in piazza, a protestare, a scioperare. Ma sono stati una goccia paziente sulla roccia della democrazia polacca, sempre più compromessa. Con Bruxelles hanno cercato lo scontro e la lotta e continuano, nonostante l’aiuto dato all’Ucraina, a volare stracci e parole pericolose ora macchiate dalla convinzione dei polacchi di aver dimostrato di essere loro i veri europeisti, non certo gli altri, sicuramente non i tedeschi. Il PiS sa che questo atteggiamento lo ha reso, almeno per il momento, difficile da attaccare dentro all’Ue, meno dell’emarginato Orbán, che si aggira in cerca di una famiglia europea e del gas della Russia. Dopotutto, che Kaczynski, abituato a stare dietro le quinte sarebbe stato in grado di avere un ruolo più determinante dello stimato collega ungherese – che in passato era amico dell’odiato Tusk e non suo – si capisce da un dettaglio importante: il più famoso è Orbán, quello che si è portato più avanti nella demolizione della democrazia è sempre Orbán, ma il vero motto dei sovranisti dell’est l’ha inventato Kaczynski quando urlò durante un comizio a Varsavia la verità che il suo collega ungherese non aveva ancora avuto il coraggio, o la sfacciataggine dire: per noi l’Europa è un bancomat.

 

La guerra di Putin in Ucraina ha allontanato Budapest e Varsavia in modo che sembra irreparabile, almeno fino a che non finisce il conflitto: in Italia i “pupazzi” del Cremlino convivono con i suoi più strenui oppositori, ma nell’est dell’Europa no. Per i polacchi la Russia è una minaccia esistenziale, per gli ungheresi invece è una fonte: di energia, di armi contro l’occidente, di aspirazioni per un ordine globale alternativo, trainato dal nazionalismo (infatti la liason va di pari passo con quella con la Cina). Così Orbán è diventato quello che-bisogna-convincere: alle sanzioni a Putin, alla fornitura delle armi, all’unità nell’isolare Mosca.

 

È un gioco estenuante e a perdere e l’Ue lo sa, tanto che in una decisione che non ha precedenti la Commissione europea ha proposto di sospendere 7,5 miliardi di euro di fondi destinati all’Ungheria a causa delle violazioni dello stato di diritto da parte di Orbán. E’ la prima volta che l’esecutivo di Ursula von der Leyen ha deciso di applicare le sanzioni del meccanismo di condizionalità sullo stato di diritto, che era stato introdotto all’inizio del 2021, cioè è la prima volta che l’Ue decide di dire agli ungheresi che no, non è soltanto un bancomat. Orbán ha reagito come fa di solito, cioè annunciando una commissione anti corruzione per andare incontro alle richieste di Bruxelles, perché sa che c’è un tetto alla sua belligeranza ed è appunto quello economico. Ma s’illude chi pensa che la minaccia di chiudere il portafoglio porrà fine allo scontro, anzi, semmai aumenta il vittimismo di Budapest.

 

Il premier infatti ha già detto, in questi ultimi giorni in cui gli alleati dell’Ucraina hanno fatto un lavoro gigantesco e martellante all’assemblea dell’Onu per convincere i paesi cosiddetti “neutrali” a collaborare nell’isolamento della Russia, che vuole che le sanzioni europee a Putin finiscano entro l’anno. Non pone altre condizioni se non quella temporale, che è come dire a Mosca: tira fino a Natale e poi potrai ricominciare a fare come vuoi. Il ricatto continua, sotto altre forme. E intanto Orbán che un minimo di finzione sulla corruzione e il clientelismo la deve inscenare insiste con la sua battaglia contro i diritti, soprattutto quelli degli omosessuali. 

 

La guerra ha modificato le alleanze del conservatorismo europeo, ha spezzato l’alleanza di Visegrád che in Italia ha sempre avuto un enorme fascino, ha portato l’Ue a fare una cosa che non aveva mai fatto cioè condizionare le proprie elargizioni a una minima condivisione dei valori comuni, ma alcune cose sono rimaste intatte. È l’asse che vuole ridimensionare i diritti, l’integrazione, la mescolanza della società – è Orbán che ha detto di non voler vivere in una società con diversità razziali, tanto che una sua consigliera storica, Zsuzsa Hegedus, si è dimessa e gli ha detto: questo è nazismo –  e far passare per “mainstream” o “woke” o “imposizione” i princìpi di tolleranza, liberalismo e convivenza che tengono insieme l’Europa. È questa la saldatura, e a differenza di quel che è avvenuto e avviene nei rapporti altalenanti con Bruxelles, non c’è alcuna dissimulazione.