posture diverse
Bisogna saper perdere. Letta lo sa fare, Salvini invece no
La differenza tra il leader del Pd e quello della Lega si vede nel giorno dopo il voto: uno composto, che conosce la sua fine e prova a guardarla negli occhi, l'altro in maniche di camicia che prova con l'ottimismo a dissimulare la disfatta
Come dice il gran Cundari, se c’è una cosa in cui la sinistra è bravissima è l’analisi delle proprie sconfitte; sommata all’altra propensione del Partito democratico, liquidare i suoi segretari a cadenza più o meno annuale, aiuta a comprendere la funzionale sobrietà, la postura umana, con cui ieri mattina Enrico Letta ha annunciato, in poche parole in conferenza stampa, che a breve sarà indetto il congresso, lui ne guiderà il percorso in spirito di servizio, “ma non mi presenterò candidato”. Dall’altra parte geopolitica dell’Italia, negli stessi istanti, dopo essere rimasto nella lunga notte di domenica chiuso negli uffici di Via Bellerio – niente dichiarazioni, almeno Letta aveva mandato Serracchiani a sfidare il plotone dei cronisti – Matteo Salvini, l’altro grande sconfitto, ha dato un’interpretazione del ruolo diversa e contraria, e se è possibile fare graduatorie, più scadente.
Alla prima domanda dopo la sue brevi dichiarazioni, a chi gli chiedeva se non fosse stato troppo aggressivo in campagna elettorale, Letta ha risposto che non era tattica: “Credevo in quello che dicevo”. Il che non lo assolve né da quello né da altri errori. Ma il segretario pro tempore del Pd ha rivendicato un percorso che andava fatto nel suo anno e mezzo (non sfasciare il partito) e il tentativo di raggiungere un obiettivo per la prossima legislatura. Ha riconosciuto i limiti e il fallimento, ha dato via libera al futuro. Insomma ha fatto politica, e se ne andrà: con il 19 per cento, non l’8.
Matteo Salvini e la sua postura sono tutt’uno. Arriva, infila gli occhiali, toglie gli occhiali, guarda il telefono, prende i fogli, “guardiamo tutti i numeri, regione per regione”. In maniche di camicia. Dice che ieri notte era incazzato, ma stamattina si è svegliato più combattivo di prima.
“Oggi è un lunedì in cui dopo tanti anni c’è un governo scelto dai cittadini”, dice scrutando un po’ in tralice. Che i cittadini non abbiano però scelto lui, non importa. Se Letta è persino trasparente nella sua malinconia delle piccole cose, Salvini dissimula le rogne, è ottimismo della volontà. Non è faccenda di stile professorale, del gusto un po’ funereo di scegliere la cravatta, di un innato self control, o freddezza che si voglia dire. Non è questione di biografie, Salvini ha la sua e il suo popolo preferisce camicie slacciate e felpe, niente da obiettare. Il punto è che preferisce anche il racconto autoconsolatorio del Capo: “L’agenda Draghi non paga, anzi è stato premiato chi ha fatto cadere Draghi”. La Lega sconta il sacrificio dentro un governo che non era il suo. Ma dare la colpa al governo, a chi ti spingeva a starci, persino i tuoi governatori, e rimpiangere di non essere stato all’opposizione, significa essere l’unico a non aver imparato nulla dall’esperienza.
Anche Letta fatica a dissimulare le sue cattiverie, la bocciatura di Bonino è l’occasione per incolpare il “fuoco amico” di Calenda, non lo perdona; poi dà la colpa di tutto a Conte, il nuovo competitor del Pd. Salvini invece tende a confondere, governa la psicologia ma non la narrazione: dare le colpe gli altri, persino ai suoi, è rifiutare di vedere le proprie. Lui ha trasformato un partito carismatico in un partito personale, e la sconfitta non è ammessa. Del resto sa la Lega è ancora sua, non è contendibile. Il congresso ci sarà, ma ci sarà anche lui, nessun esilio lo attende, per ora. Due stili, due modi di affrontare la sconfitta, in cui la diversità non è psicologica, frutto di differenti storie personali. È un modo di intendere la politica.