Ora Salvini spaventa Meloni con l'ipotesi dell'appoggio esterno
O il ritorno al Viminale o la Lega fuori dal governo: sarebbe questa l'estrema minaccia del fu Capitano. I due leader si incontrano a Roma: un faccia a faccia tra mille diffidenze. E intanto parte il logoramento del Carroccio nei confronti di FdI: "Gli italiani vogliono una svolta, non la continuità con Draghi". Il nodo del rigassificatore di Piombino: "Noi saremo contrari", dice Borghi
Che ieri pomeriggio l’abbia posta sul tavolo dell’ufficio di lei, la pistola di cui tanto si parla, non è dato sapersi. Né è facile stabilire se, quando anche l’avesse fatto, quella pistola sarebbe risultata scarica. Sta di fatto che lei, cioè Giorgia Meloni, alla minaccia di lui, che è Matteo Salvini, deve crederci, un po’, per quanto apparentemente surreale. E infatti i suoi confidenti la valutano, quella prospettiva, la soppesano, ne studiano la consistenza. Insomma il ricatto sarebbe questo: “O faccio il ministro dell’Interno oppure darò l’appoggio esterno”. E’ questa, dunque, la mina posta dal capo della Lega sul cammino che dovrebbe condurre la leader di FdI a Palazzo Chigi? Inutile chiederlo ai diretti interessati. Salvini, giacca e camicia delle occasioni importanti, lascia l’ufficio della Meloni con un viso enigmatico e poca voglia di parlare. Il vecchio espediente della telefonata da prendere al volo per eludere i cronisti, s’infila in un ascensore e poi fila via.
Sono da poco passate le quattro del pomeriggio: l’incontro è durato poco più di un’ora. E perfino sull’organizzazione, c’è stato da discutere: Meloni aveva escluso sedi non istituzionali, Salvini di accettare l’invito a Via della Scrofa, nella casa dell’alleata, nella sede del partito altrui come martedì aveva fatto Antonio Tajani, non ci ha neppure pensato. E dunque Montecitorio: palazzo dei gruppi, nelle stanze della Fiamma. Regole d’ingaggio rigorose: incontro a quattr’occhi, e nessuno a origliare. Seguirà una nota stringata, congiunta, vergata con l’ansia di non tradire nessuna delle sensazioni che i due devono aver provato.
Quando Salvini lascia la Camera, Meloni resta coi suoi consiglieri. “A parlare non di poltrone e totoministri, ma dei problemi reali del paese”, dirà poi Giovanni Donzelli, come il copione impone. Ma le preoccupazioni che i pretoriani di Donna Giorgia condividono tra loro testimoniano di una tensione che è reale. Davvero Salvini minaccia di mandare tutto a ramengo per un suo capriccio, per un puntiglio che dovrebbe valere, nell’ottica del fu Capitano, a ridonargli slancio e prestigio anzitutto agli occhi dei suoi colonnelli?
“Guardate che Matteo il Viminale lo vuole davvero, punto”, spiegava già lunedì un ex ministro del Carroccio a un notabile meloniano. E del resto lui stesso, Salvini, se l’era lasciata scappare, la rivendicazione, durante una sua diretta sui social: “Tornare a fare il ministero dell’Interno? Lo vedremo. Spero però che nell’assegnazione degli incarichi venga riconosciuto il merito. E la Lega, sul fronte della sicurezza e della lotta all’immigrazione, ha dimostrato di saperci fare”. Ci crede, insomma, altroché. Quel ministero gli è rimasto nel cuore. Che l’arma negoziale per ottenerlo fosse la prospettiva dell’appoggio esterno s’è capito al Consiglio federale dell’indomani. E’ stato lì che Salvini, parlando delle strategie di rilancio del partito, ha spiegato a capigruppo, governatori e segretari regionali che l’atteggiamento della Lega nei confronti dell’esecutivo nascituro sarà intransigente. “Del resto se gli italiani hanno votato per la discontinuità rispetto al governo che c’era, è perché vogliono che facciamo cose diverse”. Osservazione banale, ma intrisa di malignità verso lo sfoggio di responsabilità e di moderazione, insomma di draghismo, in cui la Meloni si sta provando in queste settimane. E siccome la teoria del capo è nota – in sintesi: per un anno e mezzo FdI ha fatto opposizione a Draghi non prendendo di mira la sinistra, ma infierendo su di noi, dunque ora non ci vengano a parlare di fedeltà alla coalizione – c’è stato chi, nella discussione di Via Bellerio, gli ha suggerito la mossa dell’azzardo: a questo punto, meglio non entrarci al governo, dare l’appoggio esterno e così avere maggiore libertà d’azione nel criticare la Meloni.
E certo l’idea avrebbe una sua logica, una sua coerenza. Benché, come in parecchi hanno poi notato, la mossa confuterebbe in un colpo solo decine di promesse di risarcimento dispensate a piene mani da Salvini e dai suoi fedelissimi per placare le ire degli esclusi dalle liste: “Vedrete, quando andremo al governo, un posto da sottosegretario ci sarà”. Todos caballeros. E ora come la prenderebbero, tutti quelli che si sono trattenuti dall’unirsi al coro delle critiche solo in virtù della speranza di un’estrema ricompensa?
Dunque, se anche volesse percorrere le via della minaccia, Salvini si ritroverebbe su un sentiero stretto. L’ennesima strambata, l’ultima bizzarria. Osare o perire? Chissà. Di certo c’è che il lavoro ai fianchi della Meloni è già iniziato. E così, mentre lei prende contatti coi funzionari di Draghi per studiare i provvedimenti pendenti, per imbastire il dossier delle riforme da completare, Salvini s’impunta: “Che nessuno, a Palazzo Chigi, pensi di approvare in sordina delle misure che contraddicono le indicazioni uscite dalle urne”. Perfino sulle questioni improcrastinabili il leghista annuncia battaglia. E manda avanti Claudio Borghi, immancabile, ad annunciare che col buon risultato elettorale conseguito dalla Lega in Toscana “ci saranno più avvocati difensori della causa del No al rigassificatore di Piombino”. E forse allora viene da pensare che forse, nella mente tribolata della Meloni, in questi giorni di travaglio profondo sui ministeri da assegnare e una legge di Bilancio proibitiva da dover allestire, e i capi di stato stranieri da ringraziare, l’ipotesi che Salvini non faccia parte del governo, l’idea di scansarne l’impaccio, possa perfino baluginare come un qualcosa di rassicurante.