Cingolani in trincea: "Il price cap dobbiamo farlo prima del cambio di governo"
Le trattative di Bruxelles viste con l'occhio del ministro della Transizione. La scelta di rifiutare il compromesso, le tensioni con la Germania. Ora toccherà all'Italia elaborare una simulazione del nuovo sistema di mercato europeo del gas, con un tetto su tutto il gas importato via tubo. Ecco come dovrebbe funzionare
Provarci ancora. E ancora. Perché “uno spiraglio c’è”: e per tenerlo aperto è servita un’ora e più di discussione non proprio pacata, a Bruxelles. Sono le nove e venti del mattino, quando Roberto Cingolani fa rapporto a Mario Draghi. La strategia del ministro della Transizione energetica e dei suoi omologhi europei è quella concordata: “Insistere”. E siccome nelle sue ragioni deve crederci davvero, Cingolani, e siccome crede che vada tolto ogni alibi ai nordici, alla fine accetta di addossarsi un estremo tentativo: sarà l’Italia a elaborare una simulazione della riforma del mercato del gas, e lo farà a nome del fronte dei 15 paesi favorevoli, per sottoporla alla Commissione. Il tutto, in tempo utile per il Consiglio europeo del 7 ottobre, quello decisivo.
Tecnicamente, sarà una lista di Kpi, quella che il governo italiano sottoporrà ai funzionari di Ursula von der Leyen. Key performance indicator, questa la dicitura estesa: una proiezione a metà tra l’analisi costi-benefici e il business plan, che servirà a mostrare quale sia, tra i vari in discussione, il modello di price cap più efficiente. A occuparsene sarà il fido Paolo D’Aprile, capo dipartimento al Mite delegato alle questioni europee. L’obiettivo è chiaro: sottrarre ai tedeschi l’arma retorica utilizzata in queste ore. Quella secondo cui, cioè, i quindici sottoscrittori della lettera con cui si chiede a Bruxelles di procedere alla riforma del mercato del gas avrebbero quindici idee diverse di come farla. “Vedrete che alla fine emergerà che quella che conviene a tutti è una sola”, ha detto stamane Cingolani ai suoi colleghi.
I quali ormai da mesi se lo ritrovano lì, “in trincea”, come ama dire lui, nella sua forse donchisciottesca perseveranza, con quei suoi modi sbrigativi e talvolta un po’ burberi che erano gli stessi che in Cdm gli rimproverava anche Dario Franceschini quando lo vedeva presentarsi a Palazzo Chigi in maniche di camicia, incaponirsi alla ricerca di una soluzione che è sempre, immancabilmente, più ambiziosa di quella che si potrebbe facilmente trovare. C’è perfino chi, a Bruxelles, glielo ha fatto notare: perché nell’intesa proposta dalla Commissione, giorni fa, era contenuto un pacchetto che, considerato nel complesso, avrebbe consentito senz’altro a Draghi e Cingolani di tornare a Roma recitando la parte di chi aveva salvato la faccia. Un tetto al prezzo del gas russo, l’avvio di una negoziazione privilegiata con gli altri fornitori (Norvegia, Algeria e Azerbaigian), una revisione al ribasso dell’indice di mercato europeo sul Gnl, un abbozzo di decoupling. Sarebbe stato forse insperabile solo pochi mesi fa. “Ma ora non siamo a mesi fa”, replica Cingolani, rifiutando l’idea che l’Italia possa accettare come un contentino il price cap sul gas russo, ad esempio. Perché quello semmai serviva a maggio, quando Roma e Berlino erano costrette a comprare furiosamente gas da Mosca per mettere al sicuro i propri stoccaggi, alimentando così, in una spirale perversa, il rialzo dei prezzi. Ma introdotta adesso, ora che le importazioni dalla Russia sono quasi azzerate, quella misura finirebbe col danneggiare, sia pur marginalmente, solo i paesi direttamente connessi ai gasdotti di Putin, e tra questi l’Italia.
E invece Cingolani insiste: “Il price cap va imposto su tutto il gas via tubo”. E per farlo, propone una complessa procedura di definizione dei prezzi che punta ad aggirare il Ttf, la borsa europea del gas, prendendo piuttosto a riferimento analoghi indici americani: il tutto, introducendo un range di valori minimi e massimi per limitare le oscillazioni possibili nella compravendita di gas, e dunque la speculazione. Insomma, una teoria per addetti ai lavori che Cingolani spiega col puntiglio del fisico più che con l’affabilità del politico, con la fermezza di chi non ammette compromessi, di chi non considera come onesta la vecchia tattica dello spararla grossa per poi chiudere l’accordo su risultati più modesti.
Il che, certo, non sempre aiuta, nei rituali di Bruxelles. Così come non aiuta la fretta, la consapevolezza che il tempo a disposizione va finendo. “Ma questa partita bisogna chiuderla prima del passaggio di consegne”, ha raccomandato ai suoi collaboratori. E forse c’è l’ambizione della gloria personale, certo. Ma più probabilmente, a suggerire questa sollecitudine, c’è la convinzione che se a dover gestire le tensioni di questi giorni coi tedeschi e con la Commissione non fosse Draghi, ma un governo a trazione sovranista, l’Italia rischierebbe di cedere a pulsioni pericolose, quelle che ad esempio spingevano Giorgia Meloni a urlare, fino all’altroieri, contro “l’Europa degli aguzzini”. E dire che potrebbe anche disinteressarsene, di quel che verrà dopo, Cingolani. Perché l’idea di restare alla guida del Mite, col nuovo governo, la esclude del tutto: la scelta sarà tra un lavoro nel privato in Italia e uno all’estero, forse addirittura in Asia. “Con la politica ho dato”.