Si inizia male
Meloni e l'aborto come prima materia di delegittimazione dell'avversario (calma, please)
L’Italia di Fratelli d'Italia e le guerre culturali. Delegittimare il nuovo potere in nome dei diritti personali è grave ed è la spia di un problema più generale: la crisi democratica
In un lucido articolo per il Financial Times, Timothy Garton Ash scrive che il fascismo va cercato nella Mosca di Putin e non nella Roma di Giorgia Meloni. Tra i suoi molti buoni argomenti riguardanti il potere russo autocratico e la sua invadenza imperialista, c’è che la democrazia occidentale è in pericolo più negli Stati Uniti che in Italia (il che spiega anche la sommaria assimilazione, di sapore elettorale, delle due situazioni fatta da Joe Biden). Nel frattempo da noi le provocazioni politiche maggiori dopo il 25 settembre sono, a parte il presunto mussolinismo di Meloni, l’attacco personale di basso livello a una vecchia storia di un padre deceduto e assente dalla vita di famiglia, e altre accuse con scarso fondamento che rimpiazzano critiche invece fondate e argomentate, riguardano la questione dell’aborto.
I pro choice scalpitano e non tengono in alcun conto le rassicurazioni del futuro premier e capo della maggioranza di destra sull’intangibilità della legge 194, che fu una legge abortista con alcune cautele sulla tutela della maternità contro la quale i Radicali di Emma Bonino votarono compatti dal Parlamento fino al referendum abrogativo (volevano abrogarla). Il presidente della regione Emilia-Romagna e candidato alla segreteria del Pd rinfocola annunciando l’adozione della pillola abortiva Ru486 nei consultori, questione fortemente discutibile.
Si può essere antiabortisti e si può essere stati fautori delle guerre culturali, in un contesto diverso da quello attuale, senza il wokismo e la cancel culture dilaganti in un uso arbitrario e dissennato della scorrettezza politica, e al tempo stesso essere preoccupati per questa spinta alla delegittimazione del nuovo potere in Italia in nome dei diritti personali. L’aborto come servizio pubblico eticamente indifferente, e diritto assoluto della persona, si è affermato negli ultimi decenni in tutto l’occidente e si è ibridato con la teoria del gender e della fluidità dell’identità sessuale, con esiti confusi e di radicalismo estremista noti a tutti. Ripartire dal modello italiano della legge 194, e della sua applicazione integrale, compreso il capitolo sulla tutela della maternità e della vita, non è una resa per così dire valoriale all’uso propagandistico e ideologico di “cristianità” e “maternità” gridato nel malaccorto discorso ideologico tenuto da Meloni in Andalusia, in appoggio agli estremisti di Vox. A meno che non si intenda proporre le guerre culturali sul modello chiuso, violento, antidemocratico, che hanno assunto nell’America di Trump e dei suoi nemici ideologici, con l’esito possibile e rischioso denunciato da Garton Ash. Lo spazio per ragionare in modo libero e civile, senza wokismi e senza spirito reazionario e negatore dello spazio dei diritti individuali, va preservato, e la posizione di Meloni sulla legge che regola l’interruzione volontaria di gravidanza non deve essere irrisa e negata nella declamazione a priori di un diritto assoluto all’aborto, con ogni mezzo, in ogni situazione, in più precludendo politiche pubbliche liberali e nataliste di incentivazione alla maternità e alla paternità, declamazione che preclude e sbeffeggia qualunque iniziativa di contrasto al fenomeno. (segue a pagina quattro)
Quella dell’aborto come prima o eminente materia di delegittimazione dell’avversario, e su queste basi di fanatico libertarismo, è la spia di un problema più generale e di spettacolare attualità: la crisi democratica. Will Davies ha scritto (“Stati nervosi”, Einaudi) un corposo saggio rivelatore sulla costruzione comune della verità, ormai quasi impossibile perché senza basi conoscitive o filosofiche o metodologiche nella società digitale. L’autore nel 1991 del saggio intitolato “Culture Wars”, James Davison Hunter, ha spiegato bene ieri a Adrien Jaulmes del Figaro che oggi le guerre culturali di delegittimazione politico-ideologica e di difesa esistenziale del campo a noi affine dalla presenza profana dell’altro sono la base della crisi democratica, e che questo conflitto egemonico nega “l’ordine implicito” delle cose, la resistente e profonda base comune, nutrita dalla ragione illuministica, che ci aveva sempre impedito di disconoscere e considerare un pericolo attuale per noi il linguaggio morale degli altri, quelli dell’altro campo. C’era inoltre, dice Davison Hunter, una solidarietà negativa di fronte al pericolo (Guerra fredda e avversione al comunismo sovietico, 11 settembre e orgoglio occidentalista in difesa di un modo di vita), solidarietà che con la pandemia da Covid è scomparsa del tutto, con i vaccini divenuti materia di uno scontro culturale e identitario dispiegato, intrattabile e vendicativo.
Ciascuno ha titolo anche alle proprie paure, alle idiosincrasie, a inclinazioni irriducibili, ma se la guerra culturale, che è un aspetto della “conversazione contraddittoria” tipica dell’America percorsa da Tocqueville, diventa uno scontro radicale e violento di egemonia, e al diavolo la ragione universale o l’ordine implicito delle cose, al diavolo la verità come procedura di accertamento su base comune, l’esito è una crisi profonda di convivenza e democrazia liberale. Con tutta la diffidenza e l’ostilità politica per Meloni e i suoi alleati, si deve sperare che l’Italia governata dalla destra, fronteggiata dalle opposizioni parlamentari e sociali, diventi un laboratorio in cui si riformula la conversazione contraddittoria e non questa forma ultimativa e intrattabile di conflitto egemonico delle identità esistenziali. E’ una responsabilità sia della destra sia della sinistra sia del centro liberal-riformista. Con l’aborto, cominciamo male.