"I dirigenti del Pd dovevano spendersi di più nei collegi, ora una costituente". Parla Roberto Morassut
"Detto a posteriori, errore nostro: i dirigenti dovevano spendersi nei collegi".
"Non dobbiamo sciogliere nulla, dobbiamo sapere e ricordarci di essere un grande partito, pur nella sconfitta. Dobbiamo rassicurare l’elettorato che siamo pronti a lavorare non per cancellare, ma per consolidarci"
Crisi, disfatta, buio, vuoto, notte, addirittura morte: il risultato elettorale dal Pd, visto dal Pd e da alcune aree intellettuali, assume in questi giorni tinte da tragedia, senza possibilità di riscatto a breve. E c’è chi evoca lo scioglimento (Giuseppe Conte ringrazia?). Fatto sta che al capezzale del Pd si stanno in questo momento affollando ansie, paure e fantasmi, sullo sfondo di un congresso dai contorni ancora mobili. Poche le certezze, e tra queste ci sono le poche, pochissime vittorie nei collegi uninominali. Per esempio quella di Roberto Morassut, nel collegio Roma 04 alla Camera. Il deputato uscente e rieletto, già assessore all’Urbanistica con Walter Veltroni a Roma, oggi anche esponente della direzione Pd (convocata per il 6 ottobre), guardando a ritroso, riflette sulle battaglie non combattute, quelle che forse avrebbero potuto portare qualche voto in più. Parte da un dato, Morassut: “Su circa settantacinquemila voti ottenuti dalla coalizione nel mio collegio uninominale, quasi il 10 per cento sono voti dati a me senza espressione del voto di lista. Segno che il radicamento nel territorio conta e aiuta lo stesso partito”. Un partito i cui dirigenti, a differenza che delle precedenti elezioni politiche, hanno disertato in massa i collegi uninominali. Si sarebbero dovuti candidare, invece, dice il deputato: “Lo dico riconoscendo un nostro errore – e sottolineo nostro, facendo io parte della direzione del partito. Le figure più rappresentative del Pd, pur con un paracadute nel proporzionale, avrebbero dovuto e potuto spendersi nei collegi e combattere nei territori. Proprio perché il momento era difficile: avremmo dato un segnale e, lo dico a posteriori, evitato di dare l’impressione di essere impegnati in un’azione più che altro difensiva. Un dirigente deve essere in prima linea, tanto più quando la strada è in salita”. A urne chiuse, però, Morassut invita a guardare avanti “in modo costruttivo e non distruttivo”.
“Non dobbiamo sciogliere proprio nulla, e dobbiamo sapere e ricordarci di essere un grande partito, pur nella sconfitta”, dice, rispondendo implicitamente alle tanti voci che tifano per la demolizione e ricostruzione da zero, magari con melting pot a Cinque stelle. La soluzione immaginata da Morassut passa per una costituente e per lo scardinamento delle correnti, anche attraverso un cambio di nome: “L’ho indicata, questa via, già nel 2018, per superare la crisi strutturale del Pd, in un volume intitolato ‘Democratici’ che presenterò in ristampa nei prossimi giorni. Dobbiamo avviare una costituente aperta per dare vita a una forza politica che nasca dal cuore del Pd e si chiami ‘Democratici’. Se dopo la sconfitta di cinque anni fa avessimo imboccato questa strada non saremmo a questo punto. Ma la blindatura interna delle correnti informali ce l’ha impedito. Ora non si può più rinviare questa scelta, e fa bene Letta a indicarla. Il Pd deve aprirsi alle energie democratiche e progressiste”. Il partito può essere più forte grazie a questi apporti, dice Morassut in base alla sua esperienza nel collegio ora vinto: “Ora dobbiamo rassicurare l’elettorato che siamo pronti a lavorare non per cancellare, ma per consolidare il Pd. Negli ultimi sei anni il dibattito interno è stato sordo a queste istanze di rinnovamento, come se non riuscissimo più a parlare di politica. Come se ci riducessimo a pensare a mere sommatorie: Pd più Sinistra Italiana più Verdi più Articolo 1. Oppure: scissione con una parte di partito che va verso Giuseppe Conte e una parte verso Carlo Calenda. Io dico invece: consolidiamo aprendo, allargando il perimetro, lavorando al cuore e non solo alla struttura. Ne abbiamo il tempo. E allora diamoci questo tempo”. C’è però una parte del Pd che preme per un congresso veloce: “Non dobbiamo avere questa fretta. E dico anche: chiamiamoci ‘Democratici’ nel senso di un partito-movimento capace di rinnovarsi sempre. Non facciamoci condizionare, non abbandoniamoci a questa sorta di corsa dei sacchi: possibile che, a neppure ventiquattro ore dalla chiusura delle urne, già c’erano sette o otto potenziali candidati alla carica di segretario?”.