timori e rivendicazioni
L'offensiva di Salvini e del Cav. svela un guaio del prossimo governo
Mentre la leader di FdI perde il sonno sulle bollette, il leader della Lega e Berlusconi premono per avere più posti in un esecutivo che ancora non esiste. Vogliono svolgere una regolare funzione di pressing o si preparano a dare bastonate dall’interno alla futura presidente del Consiglio?
Poiché spesso si comincia con immaginare tutto quello che non si può possedere, e talvolta si finisce, se lo si desidera, con abbastanza forza per possedere più di quanto si è immaginato, ecco che oggi Matteo Salvini, riunito il consiglio federale della Lega, intende presentare sette nomi di possibili ministri per il prossimo governo.
Sette! Anche se Giorgia Meloni intende dargliene forse al massimo tre, nemmeno di primissima fascia, uno per lui, uno per Edoardo Rixi e uno forse per Giammarco Centinaio o Giulia Bongiorno. E lo stesso vuole fare con Silvio Berlusconi, che considera all’incirca inamovibili Antonio Tajani, Anna Maria Bernini e Licia Ronzulli. Chissà. Da qualche settimana ormai Salvini e Berlusconi si muovono insieme, si avvicinano e si stringono l’uno all’altro, come due componenti della stessa sostanza chimica, o forse, come dice uno dei maggiori consiglieri di Giorgia Meloni citando Von Clausewitz: se hai poche armate devi unirle contro l’esercito più forte anche se il tuo alleato non ti piace. Dunque si sono alleati, il Cav. e Salvini, e mentre la leader di FdI perde il sonno sulle bollette, pensando già alla prossima legge di bilancio, loro premono per avere più posti in un governo che ancora non esiste. “Se chi ha votato per un cambiamento poi si ritrova i soliti tecnici, allora non sia va da nessuna parte”, dice Claudio Borghi. E Tajani, domenica: “I tecnici siano dei casi isolati”.
Temono lo strapotere di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia, e come soci di un medesimo club, quello degli alleati minori, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi palleggiano tra loro timori e rivendicazioni. Mai come in queste ore infatti si sono tanto parlati, cercati, consultati anche inviandosi messaggi attraverso terze persone. Non essendoci forse parole abbastanza sottili, abbastanza profonde per esprimere quello che entrambi provavano così chiaramente, ovvero il timore di essere sotto rappresentati, di farsi fregare, di subire la metallica psicologia leaderistica di Meloni – per non dire il suo autoritarismo temperato – entrambi sono ricorsi alla parola “tecnici”, pronunciata con un certo disgusto, avendo capito benissimo che meno parlamentari saranno rappresentati in questo futuro governo tanto più sarà forte il presidente del Consiglio, al quale le figure cosiddette tecniche, ovvero non elette e dunque svincolate dalla logica di appartenenza, sempre finiscono con il rispondere.
Più tecnici vuol dire infatti più Meloni dentro il governo, come hanno capito tutti. E dunque ci si oppone, o almeno ci si deve provare. Si sgrana così, tra gli alleati in difficoltà, tra i due partiti Lega e Forza Italia che hanno raccolto circa l’8 per cento ciascuno contro il 26 per cento di Fratelli d’Italia, il rosario interminabile delle osservazioni quotidiane: “La prevalenza va ai politici”, “gli italiani vogliono gli eletti al governo”, fino all’equazione maliziosa cui si abbandona qualche giornale di centrodestra amico, ma anche Claudio Borghi, il salviniano che nel 2018 voleva uscire dall’euro: “Con i soliti tecnici e il solito ‘ce lo chiede l’Europa’ non si va da nessuna parte”. Vogliono svolgere una regolare funzione di pressing, tipica di ogni minoranza dentro una coalizione, o si preparano a dare bastonate dall’interno alla futura presidente del Consiglio? La domanda se la fa ovviamente anche Giorgia Meloni, lei che, ascoltando gli uomini che Salvini e Berlusconi mandano avanti, volta nervosa la testa da una parte all’altra, come se fiutasse il vento, domandandosi da quale lato potrebbe sopraggiungere il disastro.
Di Salvini, minato ormai dall’insuccesso politico come altri lo sono dall’alcol o dal gioco, teme il controcanto del disperato, quel terribile sguardo nero dei figli in punizione che fa pensare al lampo d’odio impotente negli occhi dello schiavo: ti faccio male, anche a costo di danneggiare me stesso. Di Berlusconi, invece, Meloni teme il guizzo mimetico, la rapidità spregiudicata malgrado gli ottantasei anni, l’ipotesi insomma che il Cavaliere – si mettessero male le cose – possa recuperare Gianni Letta, per il momento messo da parte, e ricucire a un certo punto la tela di un governo di grande coalizione col Pd che ribalti il risultato elettorale. Ma alle prese con le bollette, con la necessità di capire se sia davvero possibile avere un ministro dell’Economia di prestigio, se non proprio Fabio Panetta almeno Dario Scannapieco, l’attuale ad di Cassa depositi e prestiti che viene dal mondo di Draghi e offrirebbe anche il vantaggio di liberare un posto importantissimo a Cdp, ecco che Meloni cerca di trattenere il cane del cattivo pensiero che strappa il guinzaglio e corre in avanti trascinando la sua mente e quasi i suoi occhi: ci si può fidare di Salvini e Berlusconi?
Non importa. Per adesso lei contempla questa effusione di richieste e mezzi avvertimenti come a teatro, con quel piccolo brivido superficiale che coglie gli spettatori di un dramma, ma che si placa subito in un confortevole sentimento di sicurezza: “Leggo ricostruzioni surreali, l’unica cosa che temo è la confusione”. Scelgo io. E allora rallenta, Meloni. Rimanda a fine ottobre. Cita Sergio Mattarella, come scusa e come scudo. In Europa a trattare sul gas andrà Mario Draghi, anche il 20 e il 21 ottobre. E’ certo. A che pro affrettare il tempo che scorre lento, recando con regolarità esasperante le stesse richieste, le stesse obiezioni, come le onde che spingono sulla riva sempre le stesse alghe?