l'assemblea dem
Il Pd va in bianco. Orlando evoca la rottura, Bonaccini pronto a candidarsi. Letta tentenna
Il segretario, che aveva ricevuto strane avances dalla Meloni per Montecitorio, sceglie l'attendismo
I dem optano per la scheda bianca nelle votazioni per i presidenti di Camera e Senato. Il governatore emiliano ha già pronto il discorso per sciogliere la riserva. Lo spaesamento di Schlein e della sinistra interna lo inducono ad accelerare. Ma c'è anche chi paventa la rottura
La scelta avrà pure una ragione tattica. “Ché qualsiasi nome proponessimo ci ritroveremmo con Conte di qua e Calenda di là che ce lo bocciano, altroché opposizione unita”. L’ha spiegata così ai suoi collaboratori, Enrico Letta, la sua risoluzione, prima di comunicarla ai parlamentari del Pd riuniti a Montecitorio per il primo giorno di scuola. E però in quella decisione di optare per la scheda bianca, giovedì e venerdì, nel voto per i presidenti delle Camere, balugina una tentazione perversa: rassegnarsi a trovare la propria identità solo sbiadendosi. Essere trasparente pur di evitare il rischio di sbagliare tonalità. Fino a marzo, almeno. E forse proprio paventando questa velleità di farsi incolori, Stefano Bonaccini s’è convinto che è ora di rompere gli indugi.
Attenderà ancora fino alla prossima direzione, quella che dovrà definire le regole del congresso. Forse già la settimana prossima. Poi, il presidente dell’Emilia-Romagna scioglierà la riserva, convinto com’è che l’ala sinistra del partito sia ancora in cerca di una bussola, oltreché di un candidato. E un po’ questa difficoltà, nel pomeriggio che inaugura l’avvio della nuova legislatura, pare incarnarsi in effetti nel disorientamento di Elly Schlein, la potenziale sfidante, il volto nuovo, che entrando a Montecitorio dopo pranzo e chiedendo indicazioni ai commessi (“Scusate, gli uffici del Pd dove sono? Posso usare questa porta?”) mostra la freschezza dei neofiti e insieme l’imbarazzo di chi teme passi falsi: “No, grazie, oggi non dichiaro”, dice, e poi raggiunge nel cortile Peppe Provenzano, vicesegretario in parka blu già quasi invernale, altro possibile candidato che però non si candida.
E insomma Bonaccini ritiene che, proponendosi, innescherà quella sorta di effetto gregge: per cui da più parti si finirà col seguire la scia del primo che dice “Io ci sono”. E Bonaccini, vuole esserci a modo suo: senza, cioè, un’affiliazione diretta con nessuna corrente, e con un’apertura convinta – e non è una grande novità – al mondo delle professioni e della cultura.
Del resto il pericolo dell’attendismo esasperato, questa nebulosa di indolenza che avvolge i sei mesi che separano il Pd dalle primarie, lo vedeva chiaro anche Letta. Che all’indomani del 25 settembre avrebbe preferito risolvere la faccenda in tempi rapidi: “Possibilmente entro il 2022”. Poi un po’ le liturgie da rispettare, un po’ le pressioni trasversali, s’è lasciato convincere dalla suggestione della riflessione autoreferenziale, dell’analisi della sconfitta. Avrebbe potuto osare, forse perfino raccogliere quel mezzo invito arrivato dai fedelissimi di Giorgia Meloni: “E se il presidente della Camera lo facessi tu, Enrico?”. Lui non ci ha mai creduto, pare. E certo sarebbe stato un azzardo. Ma sarebbe stato qualcosa. Invece il Pd preferisce non essere, per ora. “Scheda bianca”. Un po’ come il signor Palomar, quello che essendosi accorto che da un po’ di tempo “tra lui e il mondo le cose non vanno più come prima”, “decide che d’ora in poi farà come se fosse morto, per vedere come va il mondo senza di lui”. Insomma, il Pd sceglie la naftalina rassicurante del “percorso costituente”. Solo che mentre Palomar si rattrappisce, il mondo va avanti. “E noi rischiamo di finire schiacciati nella tenaglia tra Calenda e Conte”, avverte Andrea Orlando, certo che al partito serva un guizzo, un sussulto di risolutezza per superare una certa “accettazione acritica della realtà”. E quello che il ministro del Lavoro dice solo sottovoce, è il suo allievo, quel Marco Sarracino, neodeputato, promosso come capolista in quota enfants prodige, a spiegarlo: “Purtroppo, non è scontato che alla fine di questo confronto congressuale resteremo tutti insieme”. Lo spettro del big bang, dunque, della scissione? Che possa in effetti essere questo, l’esito paradossale di una costante rimozione della propria identità, lo teme del resto anche chi, come Matteo Orfini, allo scioglimento del Pd non guarda con favore, e però riconosce che “qui noi ormai non sappiamo più dire chi siamo e cosa vogliamo, e per questo c’è l’illusione di diluire la discussione tra noi in tempi lunghi e con procedure burocratiche assurde”.
Di certo le discussioni vengono scansate da Letta nel pomeriggio. Il segretario riunisce i neoeletti nell’aula del gruppo alla Camera, li catechizza come un generale che teme il rammollirsi della truppa (“Al Senato i numeri sono ballerini, dobbiamo essere sempre presenti”, “Occhio alla legge di Bilancio”), ma preferisce non aprire il rodeo degli interventi. Con buone ragioni, forse: perché era già pronta la litania dei bisticci interni – sui capigruppo, sulle quota rosa, sulle vicepresidenze da accaparrarsi (alla Camera la chiede, tra gli altri, anche Guerini). E però, di nuovo, la tentazione del bianco: il non decidere per non sbagliare, la reiterazione del “ma anche” che scolora nel “né né”. Chi vogliamo come presidenti di Camera e Senato? Qual è un nome che magari sia solo di testimonianza, ma in cui questi nuovi gruppi si possano riconoscere? “Scheda bianca”. Quanto può durare? In fondo anche il signor Palomar, convinto di trovar sollievo nel suo annullarsi, alla fine scopriva che “essere morto è meno facile di quel che può sembrare”.