Il Pnrr di Meloni: la vigilanza di Mattarella, il dossier riservato di Draghi. Nomi e cifre da monitorare
Al Quirinale considerano quella sul Recovery la prova di maturità del prossimo governo. E c'è un precedente: quello di Savona nel 2018. A Palazzo Chigi allestiscono un fascicolo in vista del passaggio di consegne: la trattativa sul RePower Eu per l'emergenza energetica ha margini molto ben definiti, astenersi urlatori. Il ruolo di Fitto e Fazzolari
L’avviso è stato chiaro perché la preoccupazione è reale. Se Sergio Mattarella ha deciso di esternarla in un’occasione ufficiale, due giorni fa (“Quella del Pnrr è una sfida che l’Italia non può perdere. Ne va del nostro ruolo in Europa”) è perché le rassicurazioni che aveva sperato di trovare da Giorgia Meloni nei confronti informali, quelli delegati ai rispettivi ambasciatori, le ha trovate solo in parte. Nel senso che sì, d’accordo, i toni bellicosi della campagna elettorale, sono stati deposti. Ma la volontà di rinegoziare i contenuti di quel Piano, cercando in ogni modo risorse straordinarie per l’emergenza energetica anche nei capitoli da cui pare impossibile trarne, resiste. Giovanbattista Fazzolari ci lavora, a Roma, col piglio di chi dice che “non può essere un tabù chiedere alla Commissione un sussulto di pragmatismo”. Raffaele Fitto prova a tessere la trama diplomatica a Bruxelles, dove ancora ieri era tutto preso da riunioni con delegazioni di altri partiti, di altri paesi. Ma il sentiero per eventuali ritocchi al Pnrr resta stretto. E questo, riflettono a Palazzo Chigi, Meloni dovrà comprenderlo “prima del suo esordio in Consiglio europeo, altrimenti lo comprenderà subito dopo”.
Lo sa bene Daniele Franco, il ministro dell’Economia che ieri ha ricevuto proprio la leader di FdI per illustrare meglio i contenuti del Documento programmatico di bilancio. E lo ha spiegato, a Meloni, anche Roberto Cingolani. Di spazio negoziale, per soluzioni ardite, al momento ce n’è poco. La Germania tentenna. E, come Robert Habeck, vicecancelliere tedesco, ha ribadito ieri sera durante una cena col ministro italiano a Praga, sarà difficile che Olaf Scholz accetterà dei salti nel buio. Tradotto, nessuna reale possibilità di stanziare nuovi fondi con debito comune per la crisi energetica.
Anche per questo Mario Draghi già a maggio, nel suo discorso sul futuro dell’Unione a Strasburgo, aveva puntato tutto su un sistema di prestiti agevolati per gli stati membri alle prese col caro bollette, sul modello di quello Sure che è stato poi rievocato di recente anche da Paolo Gentiloni e Thierry Breton. E sempre per questo, consapevole della difficoltà di aprire delle brecce nel muro di riluttanza dei nordici in ambito europeo, il presidente del Consiglio uscente ieri ha posto il tema anche durante il confronto con gli altri leader del G7. Perché lo sforzo dei paesi europei più esposti con la Russia per la diversificazione delle forniture del gas è stato notevole, e “tuttavia i prezzi dell’energia sono ancora troppo alti, è un problema che dobbiamo affrontare uniti”. Lo ha detto mentre si discuteva di come sostenere l’Ucraina aggredita da Putin: quasi a voler ribadire che dalla sfida per la riforma delle regole del mercato del gas passa un pezzo significativo della solidità dell’Occidente contro il despota del Cremlino.
Se questo è il quadro, dunque, si capisce perché quello di reagire all’immobilismo europeo con la retorica dei pugni battuti sul tavolo è una tentazione comprensibile, per chi ha alimentato per anni la narrazione sovranista, ma pericolosissima, specie se applicata al Pnrr. Lo strumento previsto dalla Commissione per fare fronte all’emergenza energetica c’è già: è il RePowerEu, e va inteso, a tutti gli effetti, come un capitolo aggiuntivo del Recovery. Ha i tempi lunghi delle novità europee, e dunque non verrà varato prima di dicembre. Ma è lì che la diplomazia del prossimo governo dovrà concentrarsi, se vuole strappare maggiori risorse. Il RePower Eu verrà finanziato soprattutto ricorrendo al fondo dei prestiti non utilizzati del Next Generation Eu. Ma l’Italia quei loan li ha impiegati tutti, e dunque dovrà accontentarsi, al momento, di attingere al fondo di 20 miliardi di stanziamenti aggiuntivi – si tratta di sovvenzioni – che verranno raccolti tramite il sistema degli Ets: stando alle quote di ripartizione, a Roma arriveranno circa 2,7 miliardi. “Troppo poco e troppo tardi”, dicono a Via della Scrofa. E però Meloni, quando si insedierà a capo dell’esecutivo, riceverà in eredità un dossier con gli esiti di una trattativa che ha visto il governo Draghi ottenere una piccola vittoria: il riconoscimento, cioè, del diritto a ottenere maggiori prestiti dalla Commissione, nell’ambito del Recovery, in virtù delle condizioni straordinarie. Di che cifra si parli, al momento è difficile dirlo.
E poi la leader di FdI dovrà prendere dimestichezza con le strutture di governance che Draghi ha allestito per gestire il Pnrr, rendendole immuni alle logiche dello spoils system, con un mandato che durerà fino al 2026. E oltre a quelli intoccabili, però, nel fascicolo che a Palazzo Chigi si sta imbastendo in vista del passaggio di consegne, ci saranno anche dei nomi che toccare si potrebbe, e pure rimuovere, ma che sarebbe saggio non farlo. La giurista Sabrina Bono, una carriera spesa tutta intera tra i vertici dei ministeri e le stanze di Palazzo Chigi, stima e conoscenze trasversali, è un vice segretario generale a cui Roberto Garofoli, il sottosegretario alla Presidenza che ha curato da vicino il Pnrr, non rinuncerebbe affatto: dietro al lavoro di monitoraggio sull’attuazione del Pnrr, dietro ai report che Garofoli leggeva in Consiglio dei ministri, c’era lei. Claudio Casini è invece il funzionario che, più e meglio di chiunque altro, ha rapporti e relazioni con la Commissione, conosce per nome i collaboratori di Ursula von der Leyen, è avvezzo alle dinamiche e abituato alle intransigenze procedurali di Palazzo Berlaymont: quando c’è stato da superare certe critiche, certe perplessità, avanzate dai controllori di Bruxelles, è lui, “il facilitatore”, che si è preso la briga di risolvere le grane. Non sarebbe semplice farne a meno, specie perché nel 2023 la gran parte del monitoraggio del Pnrr riguarderà non già il varo delle riforme, ma la loro attuazione, la messa a terra dei progetti. E lì, accumulare ritardi diventerà fatalmente più facile.
Per questo, allora, al Quirinale non vogliono neppure prendere in considerazione l’ipotesi che le rappresaglie sul Recovery, pure in nome dell’emergenza energetica, diventino il surrogato sovranista di quella che fu la guerra contro l’euro e i trattati comunitari del 2018. Allora, proprio su quel capitolo, la procedura sulla formazione del governo s’inceppò in maniera clamorosa. Nessuno auspica una replica.