(foto Ansa)

Storia del Pd, da partito multiculturale a partito radicale di massa

Ortensio Zecchino

Il Partito democratico sconta il difetto genetico di aver condannato l'Italia al confusionismo politico. Perdendo al contempo contatto con la frangia popolare dell'elettorato

Niente di nuovo sull’esito delle elezioni rispetto alle  previsioni. Aspettando alla prova il governo di destra, l’unico motivo di riflessione è la dimensione della sconfitta del Pd. C’è, quindi, da interrogarsi sulle ragioni della crisi del secondo partito italiano, così grave da metterne in discussioni la stessa esistenza a pochi anni dalla nascita. Nei commenti di questi giorni si è molto insistito sulla sua mancanza d’identità e sull’irrisolta opzione tra riformismo e massimalismo. Ma la crisi del Pd è in realtà più profonda, è genetica, e per comprenderla bisogna andare non alla sua nascita nel 2007 (definita “fusione fredda”), ma molto più indietro, alla sua lunga e travagliata gestazione che va dalla fine della cosiddetta prima Repubblica al primo decennio della cosiddetta seconda.

 

Negli oltre 50 anni di democrazia bloccata, a causa della Guerra fredda tra Occidente e Urss, il miraggio era l’approdo a una democrazia dell’alternanza imperniata su Dc e Pci, storici antagonisti (era questa la tesi finanche di Scoppola). Quando, con la caduta del muro di Berlino, il miraggio stava diventando realtà, Tangentopoli sconvolse il panorama politico. La Dc, fiaccata, ma non azzerata, si trasformò in Partito popolare (ritornando alle origini sturziane). Martinazzoli – che gestì in una continuità, confusa anche giuridicamente, la soppressione della Dc e la nascita del Ppi – imboccò di fatto la strada della non scelta, aspramente rimproverata da Fanfani. Nelle prime elezioni col maggioritario lasciò così campo libero alla competizione Occhetto-Berlusconi. Quest’ultimo, senza colpo ferire potette perciò raccogliere automaticamente la gran parte del voto democristiano.  Successivamente, la condivisione del ruolo di opposizione al governo Berlusconi tra popolari e postcomunisti portò Prodi a cavalcare un’ipotesi di coalizione (l’Ulivo) con il dichiarato obiettivo di trasformarla in un partito “multiculturale” con forte inclinazione a sinistra (versione realista, rispetto a quella idealista di Dossetti). Sarebbe lungo (ma utile) descrivere come le iniziali, agguerrite opposizioni al progetto prodiano si siano svanite sia all’interno dei postcomunisti che dei popolari. Nei primi fu isolata l’ala migliorista che puntava finalmente a dar vita a un vero partito socialdemocratico (con D’Alema, partito antiulivista e, dopo ondeggiamenti, giunto ulivista). Nei secondi, dopo l’iniziale fiera opposizione al progetto prodiano, da parte di tutti i segretari (Martinazzoli, Bianco, Marini e Castagnetti) e di maggiorenti (De Mita), nella speranza della difficile riconquista del tradizionale elettorato democristiano, inopinatamente, si giunse, con il loro pieno consenso (a eccezione di Bianco), dopo una breve fase intermedia, alla fusione nel Pd (sarebbe complicato descrivere il tortuoso e sempre sofferto itinerario di Martinazzoli, che, dopo aver di fatto sostenuto le posizioni prodiane, notificò a Castagnetti il suo dissenso sullo scioglimento del Ppi). 

Con la nascita del Pd, partito “multiculturale”,  si sancì la condanna dell’Italia al confusionismo politico. A una sana alternativa tra una sinistra finalmente socialdemocratica e un centro-destra moderato (come in Germania) è subentrato da una parte il bicefalo Pd che nei primi anni non ebbe neanche il coraggio di aderire alla casa dei socialisti europei (operazione realizzata da Renzi, per ragioni tattiche) e dall’altra l’anomalia del berlusconismo, che aveva ereditato in modo quasi automatico il voto “moderato” dc, dopo la rinuncia di Martinazzoli. Errori e perdita di credibilità del berlusconismo hanno poi prodotto il trasferimento di gran parte del voto moderato alla Lega salviniana. Analogamente, errori e perdita di credibilità di quest’ultima hanno ora prodotto il trasferimento di gran parte del disperato voto moderato a Fratelli d’Italia.

 

Il Pd sconta, come era previsto, il difetto genetico, di aver voluto essere partito multiculturale, aggettivo che certifica una nefasta pretenziosità, ma che era orgogliosamente sventolato dai suoi promotori. Emarginata ormai la frangia popolare, Letta, ex democristiano ed ex popolare, sforzandosi, comunque, di dare al Pd una qualche identità, baipassando la scelta tra riformismo e massimalismo, ha imboccato la strada, preconizzata da Del Noce, di partito radicale di massa, espressione di una laicità borghese (quella definita delle Ztl), di partito cioè aperto più ai diritti individuali, anche egoistici, che a quelli sociali. Questa molto sintetica ricostruzione vuole essere un piccolo contributo alla comprensione della patologia genetica del Pd e, più in generale, delle ragioni della così pericolosamente ondeggiante politica italiana nella ormai lunga stagione della cosiddetta seconda Repubblica. 

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