Il Cav. convoca Tajani e Ronzulli: "Nessuno in FdI pensi di poter spaccare Forza Italia. Meloni? Patetica"

Valerio Valentini

Il pranzo a Villa Grande, con Gianni Letta al fianco, per respingere l'assalto meloniano. L'ira dell'ex premier verso la premier in pectore: "Una maleducata che si crede una statista". Ma le truppe parlamentari sono ai coltelli. Il caso di Bernini e Gasparri, che prova a dissuadere gli alleati di destra dal provare a scardinare FI: "Così si va a sbattere"

Il conciliabolo è di quelli concitati. Poco dopo mezzogiorno Stefania Craxi, reduce dal rodeo di giovedì a Palazzo Madama, prende in disparte Antonio Tajani. “Tu, Antonio, devi far passare il messaggio, devi spiegare alla Meloni che così davvero si rischia di compromettere tutto”. Non è bastato ricompattarsi a Montecitorio intorno alla candidatura di Lorenzo Fontana, insomma, per smaltire i postumi del grande affronto. “Anzi, ieri sera Berlusconi ha ripreso il discorso, era arrabbiatissimo”. E che il momento sia delicato davvero lo dimostra allora la presenza di Gianni Letta. C’è anche lui, seduto a tavola, a Villa Grande, per questo pranzo del venerdì. Sta lì, tra Tajani e Licia Ronzulli, che si scambiano sguardi al vetriolo, tutti al cospetto del Cav.

Che sia arrabbiato, Berlusconi, lo testimonia l’eco che ancora risuona, tra le mura della reggia sull’Appia Antica, dalla sera prima. Quando, durante una cena offerta a tutti i senatori, è finito per tornare, con alcuni di loro, sull’incidente appena consumato. E quell’atteggiamento della Meloni, quei pugni sbattuti sul tavolo per ribadire ogni volta un “no” alle richieste avanzate da FI, il Cav. proprio non riesce ad accettarlo. “E’ un’arrogante”, sbuffa, “una maleducata”. E poi “quelle sue pose da statista, vista la gente di cui si circonda, sono patetiche, sono ridicole”. Che servissero come bozza del discorso, quei punti messi nero su bianco sul  suo scranno del Senato?

Ma non è solo una questione di galateo. C’è che l’affronto “pone un tema politico, di come si sta in coalizione tra alleati”. E non ci si sta, dice il Cav., “con una che comanda, che vuole venire a decidere anche in casa degli altri”. Perché oltre alla questione della Ronzulli, c’è la fermezza della Meloni nel non concedere nulla sui ministeri richiesti da FI – giustizia no “perché si rischia di tornare alla stagione delle leggi ad personam”, il Mise neppure perché di lì passano le deleghe alle telecomunicazioni, e “non si può riaccendere la polemica sul conflitto d’interessi” – e perfino la pretesa di essere lei, la capa di FdI, a indicare i nomi più opportuni dei ministri azzurri, “e guarda caso pescandoli tra le file degli ex An, Bernini e Gasparri”. Su questo si accaniscono i deputati azzurri, di buon mattino alla buvette.  “Noi così usciamo morti e il caso Ronzulli non esiste. Esiste un caso Forza Italia”.  "Ma scusate: la Lega prende tutti ministri di Serie A e noi dovremmo accontentarci di Esteri, Pa e Università e un altro ministero solo a patto, però, che lo si dia a Pichetto, perché così ha deciso la Meloni? Ma è uno scherzo?”.

E però, se la cocciutaggine della premier in pectore sta lì a dimostrare, per i parlamentari più vicini alla Ronzulli, la bontà della tentata prova di forza, per altri il fallimento della manovra di sabotaggio dovrebbe suggerire a chi l’ha ispirata di cambiare strategia. “Quando si perde si impara, e oggi speriamo che chi di dovere abbia imparato qualcosa”, diceva del resto la Bernini, pochi minuti dopo il pastrocchio di giovedì, a uno sgomento Paolo Zangrillo. Tajani coi suoi fedelissimi la scelta dell’astensione l’ha descritta con parole non riferibili. Quelle che usa il “suo” Paolo Barelli, capogruppo alla Camera, sono scelte con maggiore accortezza: “Una decisione assolutamente incomprensibile”. Del resto ai pontieri azzurri che predicano la necessità della riconciliazione (“Ché se la Meloni lascia la Ronzulli fuori dal governo se la ritrova capogruppo al Senato, e sarà un vietnam quotidiano”), i colonnelli meloniani offrono un ghigno: “E’ ora che vi affranchiate dalle logiche della real casa: lì cambiano le donne, di volta in volta, ma non la dinamica”.

E insomma le ingiurie alla Ronzulli si fanno quasi spudorate. Et pour cause, pare. Perché chi raccoglie i ragionamenti della Ronzulli, in queste ore, riferisce di una convinzione cristallina: che la Meloni, cioè, voglia   produrre uno scossone così clamoroso dentro FI che porrebbe naturalmente Tajani a capo del partito. “Sennò come si spiega che nell’accordo non ci sarebbe nessun ministro del Sud, dove siamo in doppia cifra, e  ci sono due ministri romani, dove siamo al 3 per cento?”. E forse la tentazione dell’azzardo è coltivata davvero, ai vertici di FdI, se perfino uno di quelli che dovrebbe uscirne beneficiato suggerisce di accantonarla: “Spaccare gli avversari per prendertene un pezzo? Con queste strategie si va sbattere”, sussurra Gasparri.

E allora forse il senso del pranzo del venerdì, a Villa Grande, sta anche qui: nella volontà di richiamare tutti all’ordine, di falciare la malapianta del correntismo. Tajani e Ronzulli, i due scudieri un tempo affiatatissimi, che ora si detestano. E con loro Gianni Letta, lo stratega di sempre, l’eminenza ligia, convocato personalmente dal Cav. Esibire la compattezza del partito, sperando che esibendola la si ritrovi davvero. 
 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.