Così Letta, nella palude, prova a garantirsi la buonuscita per il congresso
Dieci giorni fa, Marco Meloni aveva convocato le due presidenti uscenti: “Posto che non potrete mantenere il vostro incarico, a cosa ambite?”. Hanno mantenuto l'incarico
Il mezzo blitz sui capigruppo fallisce: restano Malpezzi e Serracchiani. Il segretario prova a costruire una sua area di riferimento, sognando un ruolo da presidente. "E perché no?", dice Valente. Intanto lo stallo del partito avvicina la corsa alle primarie. Ma Orlando spariglia: "Il nome del candidato della sinistra dipenderà dalle regole che ci diamo"
Francesco Verducci e Graziano Delrio la prendono a ridere: “Inquieta non movere”. Scherzano, i due senatori del Pd. E in quella celia c’è tutto l’affanno di un partito, e del suo segretario, che trova un minimo di stabilità solo scegliendo di non scegliere perché qualunque accenno di risolutezza innescherebbe un mezzo cataclisma. E’ ora di pranzo e l’assemblea degli eletti a Palazzo Madama ha appena confermato Simona Malpezzi capogruppo. Due ore più tardi, Debora Serracchiani otterrà anche lei la proroga del mandato alla Camera. Non era questa la volontà di Enrico Letta. Dieci giorni fa, anzi, il suo consigliere politico, Marco Meloni, aveva convocato le due presidenti uscenti: “Posto che non potrete mantenere il vostro incarico, a cosa ambite?”. Hanno mantenuto l’incarico.
“E il fatto che si sia arrivati qui, e ci si sia arrivati così, denuncia la necessità di accelerare sul congresso”, dice Alessandro Alfieri, dirigente di quella Base riformista, la corrente di Lorenzo Guerini, che il mezzo blitz tentato dal Nazareno – con Anna Ascani capogruppo alla Camera e Valeria Valente al Senato, entrambe vicine al segretario – lo ha criticato subito, se non altro perché dalla spartizione che ne sarebbe conseguita rischiava di restare a bocca asciutta. E insomma a Valente, col sorriso garbato di chi sa dissimulare la delusione – “E’ il tuo momento”, le dicevano ancora lunedì, dal Nazareno – tocca spiegare che non c’è rimasta male, e che però “il Pd deve anzitutto ritrovare se stesso, rendersi riconoscibile, altrimenti nell’attesa del congresso rischia di essere il bersaglio delle critiche di Calenda e Conte”.
Ma come, se la discussione che dovrebbe servire a questo scopo viene – per dirla con Matteo Orfini – “diluita e subordinata a strani percorsi burocratici”? A sinistra dicono un po’ tutti che un congresso in tempi rapidi sarebbe un errore. Che serve una riflessione più profonda, un nuovo processo costituente. “E io sarei anche d’accordo”, riflette la prodiana Sandra Zampa. “E’ vero: servirebbe una nuova stagione dei girotondi, solo che qui intorno al Pd di girotondini non ce ne sono affatto. Per cui questa condivisibile istanza di autoanalisi rischia di apparire una furbizia retorica per tirarla in lungo, e così si legittima la richiesta di chi, invece, insiste perché non si tentenni”. Eccolo evocato, Stefano Bonaccini. Lui è pronto, attende che la direzione del Pd, che verrà convocata la prossima settimana, chiarisca regole congressuali: poi scioglierà ogni riserva.
E allora si capisce che, sul fronte opposto, stia Andrea Orlando, e cioè colui che forse più d’ogni altro paventa un precipitare degli eventi verso la conta delle primarie. E’ lui che prende la parola durante l’assemblea dei deputati. Spiega che “serve radicalità delle scelte, anche a costo di rompere l’unanimismo”, dice, guardando Letta, che “la prossima volta sarebbe bene che i ruoli li discutiamo nei posti deputati”. E’ un modo per confutare la narrazione diffusa dal Nazareno: quella secondo cui sarebbe stato il caminetto dei capicorrente a impedire il cambio della guardia alla guida dei gruppi. Cosa che invece a Orlando sarebbe garbata, pare, perché avrebbe sparigliato un po’, evitando che lo stallo si trasformasse in palude, rendendo ineludibile una corsa verso i gazebo. E’ lui, dunque, il grande frenatore? Un po’, lì tra gli ex Ds, lo pensano. Lo pensa Peppe Provenzano, vicesegretario che sperava – come pure Elly Schlein – in una benedizione per candidarsi che non è arrivata. E deve pensarlo anche Brando Benifei, capogruppo dem al Parlamento europeo che, di fronte all’attendismo della sinistra interna, ha deciso di mettersi in proprio con una corrente dei giovani (un’altra), che però non disdegna affatto l’ascesa di Bonaccini, se è vero che i due si sono già parlati. Ma Orlando non ci sta, a questo racconto. Dice che “semplicemente, prima di scegliere i giocatori bisogna capire a che sport si gioca”. Nel senso che “il nome dipenderà dal tipo di congresso che si farà”. La speranza del ministro è che diventi una “cosa larga”, che vada ben oltre i confini del Pd: e a quel punto il candidato, protetto per ora da gran riserbo, sarebbe quello di una personalità estranea alla burocrazia di partito.
E così in questa tumultuosa entropia dell’impasse, chi resta intrappolato pare proprio Letta. Che avrebbe voluto un riassetto dei gruppi per garantirsi il consolidamento di una sua area di riferimento, in modo non diverso da quanto fatto, in passato, da D’Alema o da Renzi all’indomani di loro sconfitte elettorali. Invece, alla fine, si accontenterà di una vicepresidente alla Camera come Ascani, mentre al Senato, salvo incidenti d’Aula, toccherà alla orlandiana Anna Rossomando. E però, seppur abortito, il tentativo rivela una volontà di restare nell’agone, da parte di Letta. Magari come presidente del partito? “E perché no?”, sorride Valente. “Di certo Enrico si è dimostrato persona di grande saggezza”.