nel centrodestra

Meloni e Berlusconi: il passaggio di testimone

Salvatore Merlo

Con la leader di Fratelli d'Italia non si capiscono e forse non si capiranno mai, ma il Cavaliere in Via della Scrofa varca un confine psicologico e simbolico che segna la fine dell’epoca cortigiana del berlusconismo

La grossa auto tedesca con i finestrini oscurati s’infila dentro il portone di Via della Scrofa, che fu sede di Alleanza nazionale  e oggi lo è di Fratelli d’Italia, come ci si getta dentro a uno specchio. Nessuno dunque vede bene Silvio Berlusconi entrare negli uffici di Giorgia Meloni, e così almeno all’inizio  la verità del fatto si sprigiona senza il beneficio di un’immagine (che sarà  infatti poi  Giorgia Meloni a diffondere, in serata, sotto forma di ritratto in posa: lei raggiante e quasi abbronzata,  lui col sorriso pallido di un prigioniero).  Per un uomo attento alla rappresentazione politica come il Cavaliere, sensibile com’è ai princìpi della simbologia e del marketing,  la foto equivale forse a  un’abdicazione, al sigillo ufficiale sul passaggio di testimone: da lui a Giorgia Meloni, appunto. La giovane leader che sembra fatta per non capirlo e che, ricambiata, non solo diffida ma nemmeno dissimula questa distanza fin troppo avvertibile sin dai tempi in cui Berlusconi, nel 2016, a Roma, le oppose la candidatura a sindaco di Alfio Marchini impedendole di arrivare al ballottaggio con Virginia Raggi. Tutto ciò che succede oggi ha origini lontane, ed è lo sviluppo di una concatenazione di fatti.  


“Faranno pace perché ha ben poco senso farsi la guerra”, dice Marcello Dell’Utri,  prima ancora che i due si incontrino, lui che forse sin dall’inizio, a differenza di Gianni Letta, aveva speso con il suo amico Cavaliere parole di simpatia per Meloni.  Ma al di là della politica contingente e della scelta dei ministri della Giustizia e dello Sviluppo, per Silvio Berlusconi adesso sono in questione sentimenti d’orgoglio, rivalsa e desiderio. Tutti ingredienti di una vicenda classica. Il Cavaliere zoppicante ma ancora in piedi, stanco  ma non domo, eroe del trionfo e della conquista e mai della rinuncia, non ha in realtà alcuna intenzione di  concedere   la trasmigrazione del famoso carisma o l’unzione di un nuovo Sovrano. Né ha intenzione, tanto meno attraverso la ritualità simbolica, di ammettere che un’epoca è finita. Eppure  tutto questo ora è successo sul serio.  La fine. Perché davvero mai, prima di ieri pomeriggio, Silvio Berlusconi  s’era recato nella sede di un partito del centrodestra, al cospetto di un altro padrone di casa  per discutere di politica e gestire (da ospitato) il potere. Ora lui è, per Meloni, quello che un tempo per lui furono Follini e Casini.  Come dice  Dell’Utri, “credo che per Silvio sia già tanto essersi spinto fino a lì”. E dev’essere vero.

 

 In Via della Scrofa, quindi, dove non aveva mai messo piede negli ultimi trentacinque anni passati in politica, nemmeno quando la stanza che fu di Almirante era  occupata da Gianfranco Fini, quando l’allora segretario del Msi teneva alle spalle della scrivania l’opera omnia del Duce (“Berlusconi non sarebbe venuto manco per un caffè”). Era semplicemente impensabile per il Cavaliere e Imperatore, despota asiatico e ospite affabile, l’esercizio dell’attività politica al di fuori del proprio maniero e di quel  cerimoniale di corte che, tra pizzette al gorgonzola e Sanbittèr,  nulla ha mai avuto a che vedere con le segreterie di partito, con le livree dei commessi di Montecitorio e la grisaglia ministeriale. Fini, Casini, Bossi... tutti andavano e venivano da lui, convocati,  secondo una routine stabilita e immutabile che ha sempre legato il potere berlusconiano alla casa berlusconiana. Il Castello del Sultano. Quel porto di mare che Fini, per esempio, conosceva benissimo, al punto che un pomeriggio di vent’anni anni fa, annoiato da un monologo del Cavaliere che parlava con alle spalle le nuvole e il cielo azzurro di Forza Italia, si mise a gironzolare per i salotti di Arcore tirandosi dietro Andrea Augello e Francesco Storace. Arrivato nel salone del caminetto, il leader di Alleanza nazionale stupì tutti perché conosceva il mobiletto segreto in cui si trovava una vecchia bottiglia di brandy millesimato. “Ma possiamo berla?”. “Certo, mica se ne accorge”. Una coreografia rinascimentale. 

 

E insomma la politica, corte e la casa. Anzi, le case. Le tante case del Cavaliere, quei luoghi in cui Berlusconi ha unificato la dimensione pubblica e privata, riflettendo al massimo livello istituzionale le enormi trasformazioni occorse alla scenografia della Repubblica. Questo ha cancellato Giorgia Meloni. Villa Certosa in Sardegna, dove il Cavaliere avrebbe voluto portare il G8 e portò sul serio una riunione dei leader del Partito popolare europeo accanto al vulcano che erutta a comando, e poi Villa San Martino ad Arcore, dove Umberto Bossi s’affacciava in canottiera e i ministri erano costretti al ripasso delle canzoni di Apicella, e infine, ancora prima di Villa Grande sull’Aurelia, ecco il Castello dei Castelli: Palazzo Grazioli, in Via del Plebiscito a Roma. Laddove è sempre stata sottile e inafferrabile la differenza tra la riunione conviviale e il gabinetto di stato. Un’abitudine, questa delle convocazioni, che non s’era interrotta mai, nemmeno dopo i rovesci elettorali, nemmeno dopo il sorpasso di Forza Italia da parte della Lega di Matteo Salvini. Ci voleva Giorgia Meloni, “la ragazzina”, con la sua metallica psicologia di nuova leader del centrodestra, brusca per necessità di autoaffermazione, impegnata a spazzare via ogni cosa. Forse per sempre. D’altra parte lei lo aveva detto mercoledì, mentre saliva in auto per raggiungere la villa del Cavaliere sull’Appia Antica: “Questa è l’ultima volta che vado io da lui”. Saltano i rituali di un trentennio. Trapassa il carisma, periclita la corte, compreso il potere che da sempre attorno a Berlusconi hanno avuto le tante assistenti super particolari, dette volgarmente  badanti.  Deborah Bergamini, Mariarosaria Rossi e  oggi Licia Ronzulli. Padrone dell’agenda e del telefono privato del Capo, quel cellulare che per trent’anni  è stato come la clava nel pugno di Ercole, come il bastone di maresciallo nello zaino di Napoleone: gestualità definitiva e potere discrezionale di ammettere o di negare l’accesso ai piedi del trono di Arcore. A chiunque. Pure a Meloni o a Salvini. Recentemente, più volte, persino a Mario Draghi, al quale Berlusconi veniva negato al telefono addirittura durante l’elezione del presidente della Repubblica, a febbraio, quando il Cavaliere era ricoverato in clinica. Sicché, per riuscire a parlare con lui, e aggirare la corte, Draghi dovette ricorrere a uno stratagemma: si fece dare il numero di cellulare del chirurgo che aveva operato Berlusconi al San Raffaele, e se lo fece passare dal medico mentre il Cavaliere stava a letto. Ebbene ieri Giorgia Meloni ha cancellato tutto questo, e lo ha pure comunicato con una foto impietosa. Lei trionfante e lui prigioniero. Per adesso. Due che non si capiscono, e che non si capiranno probabilmente mai.

Meloni d’altra parte ha conosciuto bene Berlusconi soltanto nel periodo peggiore e terminale, quello surrealista dell’assalto a Fini e del Bunga-Bunga, dunque comprensibilmente non ha una buona opinione di lui. E lui quando la guarda non si capacita di come una donna piccola piccola e non laureata,  una che secondo lui non ha studiato abbastanza, non ha vissuto abbastanza e non ha nemmeno vinto abbastanza, l’abbia superato e pretenda pure di comandarlo. Nei loro ambigui rapporti non cessa d’alitare  un’aura di incorporea alienità, che  impregna abiti,  lessico, accento e contegno di entrambi. Come potranno mai andare d’accordo? “Accettandosi l’un l’altra”, sospira Marcello Dell’Utri con il tono indecifrabile di chi non si capisce bene se ci crede o no in quello che sta dicendo. Ieri è finita a tarallucci e vino, per così dire. Meloni ha ceduto su alcuni aspetti secondari per non rinunciare all’essenziale, che è il riconoscimento del suo predominio. La fine dell’èra di Arcore e della sua meccanica rinascimentale. Tutte cose  che si potevano leggere ieri nel sorriso pallido del Cavaliere, in quell’acuta  sensazione di irrealtà che trasmetteva quella foto, come se una rappresentazione teatrale che Berlusconi interpretava da anni si fosse conclusa bruscamente.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.