Meloni e il bivio del Rdc: modifiche propagandistiche o riforma strutturale?

Luciano Capone

La destra può limitarsi a fare la faccia feroce attraverso restrizioni simboliche ma inutili, oppure può cambiare i meccanismi strutturali di uno strumento disegnato male. Nel secondo caso, Meloni può trovare un alleato nella Caritas che ha indicato come riformare il Reddito di cittadinanza

Il rapporto 2022 della Caritas sulla povertà e l’esclusione sociale ha riportato dati preoccupanti, il prodotto della stratificazione delle numerose crisi degli ultimi 15 anni: il numero di individui in povertà assoluta è triplicato, passando da 1,8 milioni nel 2007 a 5,6 milioni nel 2021. Inoltre in questo periodo la povertà è diventata un fenomeno sociale inversamente proporzionale all’età, che colpisce soprattutto e sempre di più i giovani: 14,2 per cento fra i minori (1,4 milioni); 11,4 per cento fra 18-34 anni; 11,1 per cento per la fascia 35-64 anni e 5,3 per cento per gli over 65 (tasso sotto la media). I

 

l presidente della Cei Matteo Zuppi ha commentato questa situazione “preoccupante”, soprattutto in vista della crisi dei prossimi mesi, notando che “il Reddito di cittadinanza è stato percepito da 4,7 milioni di persone ma raggiunge poco meno della metà dei poveri assoluti”. E pertanto ha suggerito al governo di affrontare questo problema “con molto equilibrio”, ovvero modificando lo strumento ma mantenendo l’impegno nel contrasto alla povertà.

 

Le parole del cardinale Zuppi possono sembrare un invito alla nuova maggioranza a non toccare il Reddito di cittadinanza (Rdc), come sostengono i supporter della misura, ma in realtà possono rivelarsi per Giorgia Meloni un’importante apertura per una riforma seria di ciò che non ha funzionato. Soprattutto in campagna elettorale, il Rdc è stato al centro di feroci dibattiti tra abolizionisti e integralisti, tra un fronte per la cancellazione del sussidio e uno che lo ritiene intoccabile. Si tratta, in realtà, di un dibattito dopato e irreale. Perché nessuna forza politica, a partire dal centrodestra, propone di eliminare gli interventi di contrasto alla povertà; e nessuna forza politica, a partire dallo stesso M5s, sostiene che il Rdc sia perfetto e quindi non abbia bisogno di correttivi.

 

Meloni può quindi affrontare la promessa elettorale di mettere mano al Rdc in due diversi modi: uno propagandistico e uno strutturale. Nel primo caso, più semplice, può limitarsi a fare la faccia feroce attraverso misure simboliche, ad esempio eliminando la possibilità di rifiutare offerte di lavoro (ora si decade al secondo rifiuto). Ma interventi di aumento di condizionalità, sono già stati fatti e non sono serviti a molto. Nel secondo caso, più complesso, l’obiettivo sarebbe quello di modificare strutturalmente i meccanismi di una politica pubblica disegnata male. La leader di FdI ha, però, un vantaggio nel percorrere la strada più difficile. Può, cioè, apportare le modifiche strutturali al Rdc che quasi tutti gli esperti del settore ritengono giuste, ma che il governo Draghi non ha potuto realizzare perché condizionato dal veto del M5s e dalle incertezze del Pd a sua volta condizionato dall’alleanza con il M5s.

 

Nel programma di centrodestra sul tema c’è solo una frase abbastanza vaga: “Sostituzione dell’attuale reddito di cittadinanza con misure più efficaci di inclusione sociale e di politiche attive di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro”. Il principio, condiviso da molti studiosi ed esperti della materia (come ad esempio Cristiano Gori, fondatore dell’Alleanza contro la Povertà) è quello di un ritorno al Reddito di inclusione (Rei), eliminando la confusione genetica del Rdc tra i due obiettivi (lotta alla povertà e politiche attive). Ma anche sul piano delle modifiche puntuali, Meloni potrebbe prendere a piene mani dai suggerimenti della commissione Saraceno, istituita dal ministro del Lavoro Andrea Orlando, che però non è stato in grado di apportare alcuna modifica sostanziale proprio per il rapporto con il M5s. Quella relazione, ad esempio, suggerisce di modificare la scala di equivalenza che premia i single e penalizza eccessivamente le famiglie numerose e con minori (quelle a maggiore rischio di povertà); o di modificare l’aliquota marginale implicita che scoraggia l’accettazione di un lavoro e incoraggia il lavoro nero.

 

Altre modifiche sono suggerite proprio dalla Caritas, che nei suoi densissimi rapporti ha proposto un riordino del Rdc che parte dal fatto che esistono differenziali territoriali nel costo della vita (che penalizzano il nord rispetto al sud) e da quello che se da un lato, come dice il cardinale Zuppi, metà dei poveri non riceve il Rdc, dall’altro lato metà dei percettori di Rdc non è povero. Quindi servono interventi sia che amplino i criteri di accesso (a famiglie numerose e stranieri), sia che li restringano per chi non è in povertà assoluta, sia che modifichino gli incentivi economici per lavorare.

 

Ci sono margini per una necessaria riforma strutturale, che non sia punitiva, ma che renda più incisivo il contrasto alla povertà e l’interazione dei sussidi con il mercato del lavoro. A Meloni basterebbe mettere insieme le conclusioni (ignorate) di una commissione istituita dal governo Draghi e i suggerimenti della Caritas. Avrebbe anche il vantaggio politico di rendere poco credibili le accuse di voler togliere il pane ai poveri.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali