il commento
A 10 anni da Monti, la rivoluzione liberale può attendere. Di nuovo
Oggi è più o meno come ieri e il trauma del cambiamento, con Meloni presidente del Consiglio, non c’è. Ci conosciamo (ancora) tutti
Siccome niente è più inedito dell’edito (Mario Missiroli il Vecchio), potremmo ripubblicare il pezzo che scrissi dieci anni fa, il 16 ottobre del 2012, per celebrare la parabola declinante, a me i tramonti sono sempre piaciuti almeno quanto le aurore, del governo Monti e dei suoi cantori liberal harvardiani, tra cui il Gran Giavazzi: il titolo era longanesiano, “Ci conosciamo tutti”, e la tesi anche. Scrivevo che per la rivoluzione liberale c’era tempo, bisognava accontentarsi del risanamento statale dopo il crac finanziario, sperando che poi la parola al popolo producesse il meglio del meno peggio (speranza azzardata, si intrufolarono i grillini prima maniera). Monti e i suoi avevano fatto cose di cui non dovevamo vergognarci, anzi, però aggiungevo: “Manca loro l’esprit de finesse, la comprensione (anche polemica, anche giansenistica) per l’irriducibilità di certe passioni, o vizi, come l’attitudine alla vita protetta, lo scetticismo verso il potere pubblico e l’intraprendenza privata, l’individualismo senza Dio e con il prete che ti assolve, una certa bonarietà che sconfina volentieri nella pigrizia e che non si sposa con princìpi di responsabilità e libertà delle rivoluzioni. Ci conosciamo tutti”.
Draghi non ha i difetti dei bocconiani, il paese lo conosce meglio, balneari compresi, ha studiato dai gesuiti, esce lustro e intonso dall’esperienza miserabile del governo del paese ingovernabile, una specie di Regno Unito proteso come penisola nel Mediterraneo. Il trauma del cambiamento con Meloni non c’è, basta quello del gas, dell’elettricità, della guerra e dell’inflazione recessiva. Oggi è più o meno lo stesso di ieri, il Migliore è a Città della Pieve, il meglio (?) del meno peggio è a Palazzo Chigi, dove per ora garantisce il mutismo di Matteo Salvini, se non quello di Silvio Berlusconi, e abbiamo avuto la staffetta o campanella o transizione serena garantita dall’entrante e dall’uscente. Ognuno sta solo nel cuor di Meloni, ed è subito Draghi (o almeno Cingolani). Ci conosciamo tutti, appunto.
Ho scoperto che Corrado Clini, nell’esecutivo Monti, era ministro del Mare, ohibò, come Musumeci. Niente di nuovo sotto il sole sovrano, e la sovranità è di sinistra, in termini gastronomici, come di destra. Per la rivoluzione liberale, di nuovo all’otto per cento, un po’ sotto Scelta civica, ci stiamo attrezzando, per adesso ci conosciamo tutti. Meloni farà alle Camere un discorso coi tacchi, dopo tanti discorsi coi baffi. Benvenuta la novità. La tipa è più tosta di quanto pensassi e si pensasse. In politica tutti le danno e poi le prendono, durare è un’arte che si illustra quando il mondo è diviso e la chiesa cattolica è in piedi, vedi Andreotti, ma alla fine in Italia nel conoscerci tutti sappiamo quanto siamo fragili. Molti si aspettavano una marcia o una retromarcia, avremo le solite curve, i tornanti, le asperità della guida a destra eguali a quelle della guida a sinistra. Con Craxi, attesa del trauma, tempesta nel lago del cinismo, sogno e incubo finale; con Berlusconi la galoppata di Narciso, l’invenzione linguistica che Manganelli al confronto è un dilettante, il solito bordello della serva Italia; con Renzi l’iper Rinascimento con botto costituzionale e referendario; con Meloni si vedrà, salvo che America, Nato, Europa, Ucraina e anche Russia, ci conosciamo tutti.