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Meloni nella trappola delle parole: da "sovranismo" a "dittatura sanitaria"
E i poteri forti? E la dittatura? E Orbán? E il nazionalismo? L’ingresso nella stagione dei doveri costringerà Meloni a fare scelte dure sui termini da usare. Tutte le parole tossiche che il premier dovrà dribblare, a partire da oggi
I fatti e le parole. Quando questa mattina Giorgia Meloni si ritroverà di fronte ai parlamentari della Repubblica per chiedere i voti per la prima fiducia al suo governo dovrà fare i conti con un problema che non riguarderà i numeri alla Camera bensì le giuste parole da usare per provare a mettere insieme due concetti chiave della stagione meloniana: rassicurare senza tradire. Per rassicurare, Giorgia Meloni sa che dal suo vocabolario dovranno necessariamente sparire alcuni concetti che hanno contribuito a connotare la storia recente della destra italiana.
Meloni, per esempio, non potrà fare un abuso dell’espressione “poteri forti”, per non essere considerata la solita complottista di destra. Non potrà utilizzare con disinvoltura l’espressione “sostituzione etnica”, per non essere considerata la solita razzista di destra. Non potrà utilizzare con facilità l’espressione “dittatura sanitaria” avendo Meloni scelto come ministro della Salute un autorevole professore che quella “dittatura” ha contribuito a crearla, a colpi di green pass e vaccini obbligatori. Non potrà utilizzare con facilità l’espressione “sovranismo”, per evitare di essere considerata in Europa, e non solo lì, come la sorella d’Europa della Le Pen e dei camerati dell’AfD. Non potrà disegnare con naturalezza nell’aria link con i vecchi amici come “Orbán”, per non essere considerata come la solita sfascista che vuole indebolire l’Europa. Non potrà fare della “discontinuità” con Draghi un tratto cruciale della sua stagione politica, avendo come primo atto del nuovo governo chiesto all’ex ministro Cingolani di rimanere a darle una mano. E dovrà trovare dunque un modo, il nuovo premier, per dimostrare che i tre termini chiave del lessico meloniano, “libertà”, “indipendenza” e “crescita”, sono termini non in contraddizione con il dizionario del perfetto sovranista, e che quei termini possono essere difesi, tranquillamente, senza attingere al vocabolario complottista masticato in questi anni dalla destra nazionalista.
Senza cioè attaccare “i burocrati di Bruxelles”. Senza cioè inneggiare al “modello di Donald Trump”. Senza cioè evocare il paradigma “Soros” per spiegare le radici di ogni problema dell’Italia. Carlo Calenda, leader della federazione che unisce Azione e Italia viva, ha detto ieri che “la destra userà parole di destra per nascondere la mancanza di politiche di destra e la sinistra scenderà in piazza contro le parole di destra per nascondere l’assenza di proposte di sinistra” e il ragionamento dell’ex ministro coglie un punto. Negli ultimi anni, la destra ha sempre mostrato una certa abilità nell’utilizzare alcuni termini per creare una contrapposizione mediatica con i nemici di sinistra ed è verosimile che, in una stagione tutto sommato dominata dall’agenda dei doveri, buona parte della contrapposizione tra le parti politiche sia legata più alle parole che ai fatti.
E così quando la destra metterà in campo le sue idee pro life – parlando in modo generico di “difesa della vita” – lo farà sapendo perfettamente che la reazione che cerca è quella più semplice: far dire alla sinistra che essere a difesa della vita significa essere fascisti. E così quando la destra utilizzerà l’espressione “nazione” o l’espressione “patrioti” lo farà sapendo perfettamente che la reazione che cerca è quella ovvia: accusare la sinistra di essere contro l’idea che l’Italia debba essere difesa come “patria”. E così quando la destra continuerà a usare in modo malizioso parole come “merito” (che compare accanto al nome del ministero dell’Istruzione) e parole come “sovranità” (anche se solo alimentare) lo farà sapendo che di fronte alle reazioni della sinistra il gioco sarà semplice: dire che la sinistra è contro il merito e contro la sovranità dell’Italia.
La distanza siderale tra le parole e i fatti determinata dalle urgenze prodotte dall’ingresso prepotente dell’Italia nella dura stagione dei doveri avrà probabilmente un effetto ulteriore sul futuro politico di Giorgia Meloni alla voce “Francia”. Fino a qualche tempo fa, per Meloni, la Francia era il simbolo di un neocolonialismo inaccettabile (ricordate la storia del franco africano?), era il simbolo di un paese predatorio (ricordate le polemiche per ogni azienda italiana comprata dalla Francia?), era il simbolo di un paese a cui l’Italia aveva svenduto la sua sovranità (alla firma del trattato del Quirinale, tra Italia e Francia, Meloni disse che con quell’accordo l’Italia aveva dato “una delega in bianco a Parigi per trattare a nome nostro con la Germania”). E invece oggi, come raccontato dal Figaro, in un contesto europeo all’interno del quale le posizioni della Francia e della Germania sembrano essere distanti su molti dossier, la parola “Francia”, nella grammatica meloniana, potrebbe diventare improvvisamente il contrario rispetto a quello che è stata fino a qualche tempo fa.
Non il simbolo di tutto ciò da cui l’Italia deve proteggersi ma il simbolo di tutto ciò di cui ha bisogno l’Italia, in termini di alleanze, per proteggersi di più. Le parole sono importanti, e fino a questo punto Meloni non arriverà, ma ascoltare il discorso di Meloni oggi sarà interessante non tanto per capire che numeri avrà il nuovo governo ma per capire fino a che punto, a parole oltre che con i fatti, il nuovo presidente del Consiglio inizierà a spiegare ai suoi follower perché la difesa del nazionalismo è inversamente proporzionale alla difesa dell’interesse nazionale.