l'analisi
Il primo discorso di Meloni è un problema per l'opposizione
Niente trumpismo e niente anti europeismo. L'intervento della premier alla Camera ha svelato una bella sorpresa: il sovranismo con il loden
Toglie argomenti all’opposizione, prova a rassicurare sui fondamentali, non usa tremontismi contro la globalizzazione, non si pone come alternativa alla stagione di Draghi, segna una discontinuità con il passato della destra nazionalista e tenta di costruire una dialettica con la sinistra più sull’agenda dei doveri che su quella dei diritti. Ma più che il farò, oggi, ciò che conta è il non farò. Il primo discorso di Giorgia Meloni da presidente del Consiglio è stato incredibilmente deludente per tutti coloro che, come noi, attendevano le parole della premier per aver ancora una volta conferma dei propri giudizi e dei propri pregiudizi sulla natura programmatica del nazionalismo sovranista.
Sorprendentemente, invece, il discorso della leader di Fratelli d’Italia ha spiazzato l’opposizione, e forse anche un pezzo di maggioranza, e ha introdotto nel dibattito pubblico un’inedita creatura politica che molto sbrigativamente potremmo ribattezzare come una sorta di sovranismo con il loden. Quello di Giorgia Meloni, dunque, non è stato un discorso divisivo, non è stato un discorso identitario, non è stato un discorso trumpiano, non è stato un discorso anti draghiano, non è stato un discorso nazionalista, non è stato un discorso populista ed è stato a tal punto un discorso così poco antieuropeista da aver messo al centro del proprio programma la necessità esplicita di volere addirittura più Europa per provare a risolvere alcuni grandi problemi che riguardano il futuro dell’Italia. Ed è stato così in due passaggi in particolare.
Il primo riguarda il fronte energetico rispetto al quale, secondo Meloni, la solidarietà europea non è parte dei problemi ma è parte delle soluzioni (“L’assenza, ancora oggi, di una risposta comune lascia spazio alle misure dei singoli governi nazionali, che rischiano di minare il mercato interno e la competitività delle nostre imprese”). Il secondo passaggio, ancora più sorprendente, riguarda invece un terreno persino più delicato, dinaanzi al quale il make up del moderatismo applicato al volto del populismo tende solitamente a rarefarsi, e quel terreno coincide con il tema dell’immigrazione. E la svolta di Meloni, su questo fronte, non ha a che fare solo con la scelta del lessico (basta parlare di blocco navale, ha detto la stessa premier) ma ha a che fare con la soluzione proposta per provare a fermare l’immigrazione illegale: “Recuperare la proposta originaria della missione navale Sophia dell’Unione europea che nella terza fase prevista, anche se mai attuata, prevedeva proprio il blocco delle partenze dei barconi dal Nord Africa”. Evocare la missione navale Sophia – che come certamente Meloni saprà è una missione che nel 2019 l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini ha tentato in tutti i modi di sabotare, con un certo successo – significa indicare una volontà tradizionalmente estranea alla grammatica sovranista. E significa in altre parole considerare l’Europa non come un nemico da combattere (Marine Le Pen, in campagna elettorale, utilizzò il tema dell’immigrazione come un veicolo attorno al quale costruire un’opposizione ai trattati europei) ma come un alleato da stimolare per provare a governare con più efficacia di oggi i flussi migratori (e quando si chiede più solidarietà in Europa è evidente che gli alleati giusti con cui triangolare non sono quelli che in questi giorni hanno scommesso su Meloni come testa d’ariete di un nuovo sovranismo europeo). Quanto questa linea sia compatibile con la linea del “chiuderemo i porti se necessario” messa in campo da Matteo Salvini durante la campagna elettorale e quanto questa linea sia compatibile con la linea del “blocco navale” per fermare l’immigrazione messa orbanianamente in campo da Meloni durante la campagna elettorale non è chiaro, ma la novità c’è e non si può trascurare.
Così come non si può trascurare la scelta di non essere ambigui, da parte di Meloni, sul tema della difesa dell’Ucraina e, anche a costo di far svenire Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, Meloni ieri ha detto che “sbaglia chi crede sia possibile barattare la libertà dell’Ucraina con la nostra tranquillità” perché “cedere al ricatto di Putin sull’energia non risolverebbe il problema, lo aggraverebbe aprendo la strada ad ulteriori pretese e ricatti, con futuri aumenti dell’energia ancora maggiori di quelli che abbiamo conosciuto in questi mesi”.
E così come non si può notare che il primo discorso di Meloni da premier ha avuto come obiettivo prioritario quello di rassicurare sulle sue intenzioni future (il Pnrr si modifica, non si cambia, e si cercherà di modificare “concordando con la Commissione europea gli aggiustamenti necessari”) e ha avuto come obiettivo secondario quello di offrire all’opposizione un modello di destra molto diverso rispetto a come l’opposizione l’aveva immaginato (nel discorso di Meloni, il magma populista, tema del condono a parte, che ha annunciato di voler fare, è stato interamente riversato contro nemici invisibili, inafferrabili e dunque indecifrabili contro cui la nuova premier ha promesso di combattere a mani nude: contro “alcuni potentati”, contro “circoli esclusivi”, contro le “burocrazie spesso intoccabili e impermeabili al merito”).
L’opposizione sperava di poter trovare una Meloni antieuropeista (non lo è stata), una Meloni ambigua sul fascismo (non lo è stata), una Meloni in preda alle contraddizioni sulla Russia (non lo è stata), una Meloni spericolata sui diritti (non lo è stata, al punto da dire che “vedremo alla prova dei fatti, anche su diritti civili e aborto, chi mentiva e chi diceva la verità in campagna elettorale su quali fossero le nostre reali intenzioni”, ha detto ieri la premier). E invece oggi allo stato dei fatti, l’opposizione si ritrova nella condizione di attaccare Meloni sulle sue intenzioni future (chissà se la sua svolta moderata reggerà nel tempo), sulla sua idea di riforma semipresidenziale (che in passato era la sinistra a volere), sulla sua proposta di riforma del Reddito di cittadinanza (che sembra essere finalizzata a riportare la lancette ai tempi del Rei di Paolo Gentiloni e di Matteo Renzi), sulle sue idee sull’energia (trivellare l’Adriatico), sulla volontà della destra di scommettere eccessivamente sulla parola merito (davvero una grande battaglia) e sulla possibilità che la prima donna al governo dell’Italia non sia davvero una donna che vuole difendere i diritti delle donne (vastissimo programma). E dunque la sintesi è quella.
Con il discorso alla Camera, Meloni toglie argomenti all’opposizione, prova a rassicurare sui fondamentali, non usa tremontismi contro la globalizzazione, non si pone come alternativa alla stagione di Draghi, segna una discontinuità con il passato della destra nazionalista e tenta di costruire una dialettica con la sinistra più sull’agenda dei doveri che su quella dei diritti. Certo. Meloni non dice una parola chiara sulla concorrenza (mai citata), non dice una parola chiara sulle tasse (la flat tax si è già affumata?), non dice una parola chiara sulle pensioni (esiste un’altra agenda rispetto a quella Draghi?), non dice una parola chiara sui vaccini (non demonizzati ma neppure mai citati come elemento chiave della ripresa dell’Italia), non dice una parola chiara su come fare quello che la destra italiana non è mai stata in grado di fare al governo (ovvero abbattere il debito pubblico portando avanti politiche pro crescita). Ma ciò che conta, oggi, nel suo primo giorno da premier in Parlamento, non è ciò che Meloni ha promesso di fare ma è ciò che ha promesso di non fare, con quella strana creatura politica che si presenta ora di fronte al paese con i panni curiosi e forse promettenti di un pazzo e inaspettato sovranismo accucciato nel loden.