Quale made in Italy?
Le imprese secondo Meloni: piccole, italiane e poco innovative, influenti ma non per forza belle
La presidente del Consiglio non ha fatto ancora alcun cenno alla necessaria spinta per la crescita dimensionale delle nostre aziende. Potrebbe non essere casuale
Il governo delle imprese, sì certo. Giorgia Meloni l’ha detto esplicitamente in Parlamento, il ministero dello Sviluppo economico diventerà il ministero delle Imprese e Made in Italy. Ma quali imprese? Le piccole imprese, mini imprese; quelle del manifatturiero artigianale. Quelle del “piccolo è bello” degli anni Ottanta del secolo scorso, slogan divenuto assai vintage con la globalizzazione? Oppure le medie dinamiche, multinazionali tascabili? O – ancora – le grandi, o quel che resta (poco) del capitalismo italiano privato di taglia internazionale?
Non è chiarissimo quale sistema produttivo abbia in mente la presidente del Consiglio, visto che, peraltro, non disdegna nemmeno l’intervento statale. Quale modello di sviluppo, insomma, per rendere strutturale – come ha detto – la crescita del Pil. Perché le imprese non sono tutte uguali. “La presidente Meloni dice che le imprese italiane sono fantastiche. Beh, non è proprio così”, ragiona Giorgio Barba Navaretti, economista, professore alla Statale di Milano. “L’idea del piccolo è bello mi pare un po’ superata. Oggi le aziende hanno bisogno di investimenti importanti per affrontare le transizioni digitale e ambientale. Il governo pensa al supporto pubblico a questo processo? Non è per nulla chiaro se siano queste le linee di politica industriale a cui ha accennato la presidente nel suo discorso nel quale, va detto, ha parlato di rafforzare le filiere produttive italiane. Punto, quest’ultimo, condivisibile purché con un approccio europeo e non sovranista”.
Tuttavia, se si provano a unire alcuni puntini, si può anche sostenere che il sistema a cui tenderebbe Meloni è quello delle piccole imprese, incentivate a restare tali dalle regole sul mercato del lavoro e sul fisco oltreché dalla burocrazia. Nessun cenno è stato fatto alla necessaria spinta per la crescita dimensionale delle nostre aziende. Potrebbe non essere casuale. “Una sorta di cristallizzazione dell’esistente”, sostiene Sandro Trento, ordinario all’Università di Trento dove dirige anche la School of innovation. Gli annunciati interventi in materia fiscale (condono compreso) guardano ai piccoli (con in testa le partite Iva) più che in generale al sistema delle imprese. Già: “Queste aziende di piccole dimensioni – scrivono gli economisti Lorenzo Codogno e Giampaolo Galli nel loro recentissimo “Crescita economica e meritocrazia”, pubblicato dal Mulino – sono quelle le cui associazioni sono meglio organizzate e più influenti. Spostano milioni di voti, quindi sono piuttosto influenti sulle decisioni politiche. Spesso difendono situazioni anticoncorrenziali – ad esempio nel commercio al dettaglio, contro la grande distribuzione – e fanno ben poco per aiutare il governo a contrastare l’evasione fiscale e la corruzione”.
Il nanismo delle aziende italiane è uno dei problemi che ha reso permanente la bassa crescita economica negli ultimi decenni. La loro scadente produttività, legata agli scarsi investimenti in innovazione, frena lo slancio dell’economia. “Nessuno può negare i sorprendenti risultati del made in Italy – dice Fabrizio Onida, professore emerito di Economia internazionale alla Bocconi, autore del fortunato “Se il piccolo non cresce”, pubblicato nel 2004 – ma non basta. C’è un problema di forza contrattuale sui mercati, di polmone finanziario come di risorse per la ricerca. I dati ci dicono che un sistema produttivo così frammentato, nel quale il peso dei piccoli è sopra la norma, non è un vantaggio competitivo”.
La produttività delle piccole imprese è in generale bassa, ma quella delle italiane lo è di più: secondo i dati della Commissione Ue la produttività per addetto è di 31 mila euro contro i 37 mila euro della media in Europa. Dunque, non sono sufficienti le medie imprese innovative con il loro tasso di incremento della produttività del 3 per cento l’anno. Sono troppo poche e troppe sono le piccole imprese dove si concentra oltre il 90 per cento dell’occupazione privata. E i piccoli (altro puntino) sono una parte rilevante della base elettorale della destra e del centrodestra italiano. E si è visto quanto “pesino”, per dirla con Enrico Cuccia, quei voti. Fratelli d’Italia ha rubato quote di consenso alla Lega di Salvini e a Forza Italia proprio tra questi ceti produttivi. Ancora: i due ministeri strategici in questa prospettiva (quello, appunto, delle Imprese e quello del Lavoro) sono stati affidati a personalità con un rapporto strettissimo con il mondo della piccola impresa. Marina Calderone è consulente del lavoro, figura strategica per le aziende più piccole, non certo per le grandi; Adolfo Urso è stato titolare di una società di consulenza e assistenza (“Italy world services)” per le imprese italiane all’estero. Può non essere un caso. Tanto più che Guido Crosetto, considerato il sostenitore degli ingredienti liberisti della Melonomics, è stato dirottato alla Difesa dopo essere stato in ballo per l’ex Sviluppo economico.
D’altra parte – spiega ancora Sandro Trento – “la strada per accrescere la dimensione delle aziende transita attraverso le riforme: del lavoro, del mercato finanziario, dell’Autorità di controllo, la Consob. A nessuna di queste riforme ha accennato la presidente Meloni. Che ha parlato di imprese ma non di imprenditori. Sembra aver lisciato il pelo ai suoi elettori anziché stimolarli a fare cose diverse. Si consolida il mondo che abbiamo ma questa mi pare una scommessa un po’ rischiosa e una strada di breve termine”.
Il non detto della Meloni, però, si può leggere anche in un’altra chiave, positiva. Lo fa Nicola Rossi, professore di economia a Tor Vergata a Roma, membro del consiglio di amministrazione dell’Istituto Bruno Leoni: “Personalmente ho letto l’assenza di riferimenti alla crescita dimensionale delle imprese in maniera positiva. Finalmente! Davvero si pensa che la crescita delle imprese abbia a che fare con gli incentivi? Io penso di no. Nei decenni passati si è inondato il paese di incentivi anche da questo punto di vista con risultati straordinariamente deludenti sia dal punto di vista della nascita di nuove imprese sia dal punto di vista della crescita dimensionale. Molto correttamente Meloni non pensa agli incentivi. L’importante è che le imprese siano libere di essere ciò che ritengono di essere: piccole, medie, grandi; e poi crescere oppure fare un percorso inverso. Mi sembra – se fosse così – un bel passo avanti rispetto al passato. Sappiamo che c’è un problema demografico in Italia, ma il paese sembra ignorare che esiste un problema analogo nel sistema delle imprese: da anni si riduce il loro numero nel disinteresse di tutti. Il vero problema è far riprendere la dinamica imprenditoriale. ‘Non disturbare chi fa’, mi pare un segnale positivo verso la neutralità fiscale e amministrativa rispetto alla tipologia e alla dimensione di un’azienda”. Il dibattito c’è, e anche questo è un passo avanti.