Giustizia da fare. Cosa chiedere a Nordio
Tutti d’accordo sui tempi da sveltire. Punti di vista diversi sul Csm. Carenza di magistrati e personale, emergenza carceri, separazione delle carriere gli altri nodi da affrontare. Parlano Bruti Liberati, Ancilotto, Caiazza, Tarfusser
Se una premier donna a Palazzo Chigi rappresenta un inedito assoluto, è invece assai noto il copione delle riforme giudiziarie attese e poi vanificate. Il Guardasigilli Carlo Nordio, già toga blu della magistratura, ha davanti a sé un’impresa ardua. Senza la pretesa di fornire consigli, abbiamo consultato alcune personalità, espertissime della materia, in grado di indicare una direzione di marcia. Ecco che cosa ne è venuto fuori.
“Attuare gli impegni del Piano nazionale di ripresa e resilienza è centrale per l’Italia sistema paese e sistema giustizia”, dice al Foglio Edmondo Bruti Liberati, già procuratore della Repubblica di Milano e padre nobile della corporazione togata. “Riforme che restano sulla carta sono peggio che cattive riforme: non è mai vero che ‘l’intendance suivra’. I dati forniti dal ministero della Giustizia per il primo semestre 2022 su riduzione dei tempi di definizione e dell’arretrato sono incoraggianti, ma molto resta da fare”. Su quali proposte dovrebbe puntare il prossimo governo? “In primo luogo, io consiglio di sospendere iniziative di riforma, come si fa ogni estate per il fermo biologico della pesca in Adriatico. E’ meglio rinviare a settembre 2023 le cosiddette ‘riforme epocali’, nell’attesa dobbiamo attuare le riforme Cartabia e monitorarne l’applicazione in vista di eventuali correttivi. C’è poi il tema della carenza di magistrati e personale amministrativo. E’ stato bandito un concorso per 400 magistrati. Occorre ridurre la durata del tirocinio dei vincitori dell’ultimo concorso; ma si organizzi subito una struttura autonoma per il tirocinio dei neo-magistrati presso la Scuola superiore della Magistratura, sull’esempio della struttura di Bordeaux della Ecole nationale de la Magistrature francese. Quanto ai magistrati onorari, una volta risolta in qualche modo la situazione di quelli già in servizio, bisognerà aprire un nuovo reclutamento, con misure che evitino i problemi del passato precariato. Personale ammnistrativo: le carenze al Nord sono tornate al 30 per cento, i concorsi per figure professionali specializzate (statistici, informatici) sono andati deserti. Le retribuzioni offerte sono insufficienti, occorre proporre incentivi”.
Resta poi il tema delle circoscrizioni giudiziarie. “Serve una revisione. Le Corti di appello dovrebbero essere una per regione. Se due Corti sono sufficienti per Lombardia e Campania, altrettante dovrebbero bastarne per Sicilia e Puglia. Su 159 tribunali, 58 hanno meno di 20 magistrati, di questi 12 meno di 10 magistrati. Questi tribunali non sono in grado di garantire efficienza. Accorpamenti di Tribunali e Corti consentirebbero un utilizzo migliore di 300 magistrati e la soppressione di 50 posti direttivi. Il ministero della Giustizia dispone di tutti i dati. I magistrati rinuncino a qualche posto direttivo. L’avvocatura superi anacronistiche chiusure corporative. Politici e amministratori locali assumano la responsabilità di scontentare le reazioni localistiche, spiegando che è meglio avere un Tribunale un po’ più distante, ma che funzioni; l’attività di certificazione, che costituisce per molti il principale motivo di accesso ai Tribunali, può essere mantenuta in strutture di prossimità. E poi, sul piano organizzativo, occorre prepararsi in anticipo e governare l’impatto sulla giustizia di Intelligenza Artificiale e giustizia predittiva. Servono banche dati con le decisioni della Cassazione ma anche di Tribunale e Corti di appello. La conoscenza dei precedenti non è incentivo al piatto conformismo, ma impegno per la prevedibilità delle decisioni, che insieme contiene la domanda evitando iniziative infondate e rassicura la collettività contro le oscillazioni patologiche della giurisprudenza”.
Non abbiamo parlato del Consiglio superiore della magistratura. “Nessun intervento sul sistema elettorale del Csm può ignorare l’esistenza delle correnti dell’Anm, libere, trasparenti associazioni di magistrati che si formano sulla condivisione di una concezione del sistema di giustizia e delle riforme da proporre. In tutti i paesi europei esistono associazioni di magistrati e, quasi sempre, più di una. L’Hotel Champagne esiste e pesa come un macigno da superare, ma non si può sottovalutare, in un paese in cui le dimissioni sono pressoché ignote, che cinque componenti togati del Csm si sono dimessi, prima e indipendentemente da procedure disciplinari o penali. Proprio il modello costituzionale di una magistratura come potere diffuso e di un Csm elettivo, calato nel contesto ben presente ai costituenti di una radicata tradizione italiana di associazionismo giudiziario, è stato quello che ha ‘creato’ le associazioni di magistrati. La virtù non si impone per decreto e tanto meno con sistemi elettorali che spesso producono risultati opposti a quelli che il malaccorto legislatore si proponeva. Spetta all’Anm, ai magistrati tutti, ai componenti togati eletti nel Csm operare affinché il pluralismo associativo, grazie al confronto con i componenti laici, professori e avvocati, operi come rottura dell’ottica corporativa”.
A Venezia, dove il ministro Carlo Nordio, nel precedente ruolo, ha a lungo indossato la toga della pubblica accusa, il procuratore aggiunto del capoluogo lagunare Stefano Ancilotto spiega al Foglio che “l’emergenza è una sola: i tempi. Una sentenza inappuntabile, stramotivata, scritta in maniera encomiabile ma che arriva troppo tardi, è una sentenza ingiusta. Con il Recovery Fund, l’Europa ci assegna una mole di fondi ma, in cambio, chiede di migliorare la giustizia, non perché mossa da pietismo o altruismo gratuito. L’interesse dell’Europa è che le imprese straniere possano investire in Italia, attratte anche da un sistema giudiziario in grado di fornire risposte celeri, in tempi certi. Qualunque cittadino che subisca un processo deve poter contare sul rispetto degli standard minimi di efficienza garantiti in tutto il mondo occidentale. Che sia indagato o persona offesa, non fa differenza. Anche perché se l’obiettivo della condanna è rieducativo, non si può applicare una pena a distanza di vent’anni dal fatto, quando ormai la persona che all’epoca commise il fatto è un’altra persona. Se il lasso di tempo che intercorre tra il reato e l’esito del processo è eccessivamente lungo, mi troverò davanti non più il giovane appena maggiorenne ma un uomo adulto, con un’occupazione e una famiglia, che magari ha anche meditato sulla cattiva condotta. I tempi vanno drammaticamente accorciati, costi quello che costi”.
E’ il “whatever it takes” della giustizia? “E’ anche l’unico modo per noi magistrati di recuperare credibilità agli occhi dei cittadini. Spesso con i colleghi ci confrontiamo sulla caduta di fiducia che ha investito la categoria. La risposta migliore è l’accorciamento dei tempi. Dobbiamo garantire che nessuna domanda di giustizia rimanga inevasa, dobbiamo arrivare prima della prescrizione o prima che il debitore sia fallito”.
Quali consigli darebbe alla premier in pectore Meloni? “Mi lasci ricordare che con Nordio, oggi ministro, abbiamo lavorato al caso Mose, uno dei processi di corruzione più imponenti celebrati negli ultimi anni in Italia. Nordio che coordinava l’indagine. Contrariamente al cattivo costume delle ‘soffiate’ e del circo mediatico, nel nostro caso hanno parlato solo le sentenze, non sono fuoriuscite intercettazioni né informazioni di carattere privato sulle persone coinvolte. Ciò dimostra che se si vuole, si può. Questo è il frutto di una adeguata ponderazione degli uffici. Ho l’impressione che negli ultimi tempi i magistrati si siano autodisciplinati e ci sia una inversione di tendenza rispetto a quanto capitava una decina di anni fa. Parla solo il procuratore capo”.
Ma come si può velocizzare un sistema che sembra impantanato? “Si dovrebbe partire con una depenalizzazione seria: non si può scaricare ogni questione sulle spalle del magistrato inquirente. A volte anche il legislatore dovrebbe scrivere le norme con una maggiore attenzione: le procure sono sommerse di notizie di reato concernenti frodi comunitarie, malversazioni, truffe ai danni dello stato. Lei pensi al reddito di cittadinanza: il legislatore, dopo averlo introdotto, prevede anche un apposito reato per chi è colpevole di riscuoterlo in assenza dei requisiti richiesti. Anche questo è un modo per scaricare una serie di controlli nel settore penale a carico della procura della Repubblica”.
Con il governo di centrodestra, però, non tira aria di depenalizzazioni… “Se non vogliamo depenalizzare, dobbiamo smettere di introdurre nuove fattispecie di reato o di allargare quelle esistenti. Innumerevoli vicende, dal piccolo abuso edilizio alla guida senza patente per due volte costituiscono reato penale quando potrebbero essere meglio affrontate in sede amministrativa. E poi nel nostro sistema si va troppo facilmente a dibattimento. All’estero, nei paesi che pure hanno il rito accusatorio, le percentuali di assoluzione dibattimentale sono bassissime perché il dibattimento è riservato a un numero ristretto di casi, e il filtro dei magistrati è assai rigoroso. Non è accettabile un esercizio dell’azione penale condotto com’è accaduto fino ad oggi, con una percentuale di assoluzioni che supera, davanti al monocratico, il quaranta per cento. La riforma Cartabia ha introdotto ulteriori filtri e delle ‘finestre di giurisdizione’ nella fase delle indagini, inoltre ha valorizzato la giustizia conciliativa e riparativa. Spetterà adesso a noi magistrati applicare in maniera rigorosa questi strumenti. Attendiamo i decreti attuativi. Per accelerare, esistono prassi virtuose. La specializzazione del magistrato inquirente è importante. Esistono reati, come quelli bancari, che solitamente coinvolgono un numero elevato di persone: se rimangono a carico delle piccole procure circondariali, rischiano di appesantire oltremisura il lavoro dei colleghi. Viceversa, un ufficio centralizzato su base distrettuale che si occupi delle fattispecie più gravi può garantire una maggiore specializzazione del pm”.
Ci sono i magistrati e ci sono gli avvocati. Un filo di ottimismo viene dal presidente dell’Unione delle camere penali, Giandomenico Caiazza: “Durante la campagna elettorale abbiamo indicato a tutti i partiti quelle che riteniamo le priorità per una autentica riforma liberale della giustizia. Le risposte che abbiamo ottenuto ci dicono che in Parlamento, a prescindere dagli assetti di governo, vi è già una maggioranza assoluta sulla separazione delle carriere, sul divieto di impugnazione delle sentenze di assoluzione, sul ritorno alla prescrizione pre-Bonafede secondo lo schema proposto dalla Commissione Lattanzi. Vedremo se alle parole seguiranno i fatti. Naturalmente bisogna intendersi: la separazione delle carriere si fa solo riformando la Costituzione, qualsiasi altra soluzione è fuffa. La strada è quella indicata dalla legge costituzionale di iniziativa popolare promossa dalle Camere Penali e sottoscritta da 72 mila cittadini. Abbiamo ricevuto invece reazioni più fredde – tranne che in FdI, e va a loro merito – sulla nostra richiesta di bloccare il fenomeno dei magistrati fuori ruolo distaccati ‘manu militari’ in Via Arenula. Basta con questa commistione fisica tra potere giudiziario e potere esecutivo, è un unicum in tutte le democrazie moderne. Ha dell’incredibile la condizione di sudditanza ancillare di tutte le forze politiche verso la magistratura, come se senza di essa non fosse possibile amministrare la politica giudiziaria. Perché il capo di gabinetto del ministro della Giustizia deve essere necessariamente un magistrato, e non un funzionario di carriera? Perché il capo del legislativo non può farlo un professore universitario, o un avvocato? Perché la politica decide a ogni governo, di qualsiasi colore, di consegnare le chiavi di Via Arenula alla magistratura associata? E’ una gigantesca e inspiegabile sindrome di Stoccolma di una politica prigioniera della magistratura, e rassegnata a esserlo. Si guardi ai decreti delegati della riforma Cartabia che hanno svuotato di senso le cose buone (e non gradite alla magistratura) presenti nella delega. Chiedetevi chi scrive i decreti attuativi, e datevi una risposta”.
Sul piano delle cose da fare? “La prima: è urgente rimettere mano a quei decreti attuativi, che in sostanza non sono piaciuti quasi a nessuno dei partiti della maggioranza Draghi. La legge lo consente, e noi stiamo preparando le proposte di modifica di maggiore rilevanza. Infine, c’è l’emergenza carcere. Qui le parole d’ordine che sentiamo sono allarmanti. Assistiamo a una evocazione del principio di certezza della pena declinato in modo davvero sgrammaticato. Si tratta di un principio di derivazione illuministico-liberale che non ha nulla a che fare con il ‘gettiamo la chiave’. Se invece si tratta di ragionare su interventi che rendano le pene alternative al carcere più effettive, sorvegliate ed efficaci di quanto lo siano adesso, siamo prontissimi al dialogo. Ma cento suicidi l’anno in carcere non consentono a nessuno di voltare lo sguardo da un’altra parte”.
Cuno Tarfusser, oggi sostituto procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano, con una carriera ultradecennale alla Corte penale internazionale dell’Aja, confida al Foglio di sognare un “paese dove il ministro della Giustizia, con i numeri in Parlamento e la prospettiva di cinque anni di lavoro, affronti l’emergenza giustizia nel suo insieme e non si accontenti di affrontare alcune poche emergenze. Serve un Guardasigilli che abbia conoscenza dei problemi reali e sia persona libera da condizionamenti. Serve un ministro che pensi in grande, non parli di riforma della giustizia ma la realizzi, che non si lasci condizionare, né dalla magistratura, né dall’avvocatura. Fatti salvi i princìpi in materia di giustizia dettati dalla Costituzione, il ministro della Giustizia dovrebbe avviare una stagione di riforma – nel senso di formare di nuovo, non semplicemente rattoppare – dei codici. E’ surreale la discussione sulla foto di Mussolini, appesa in una sala del ministero dello Sviluppo economico, insieme ad altri cinquanta ministri, quando ogni giorno migliaia di magistrati e avvocati tengono Mussolini tra le mani, lo portano in giro, lo consultano sotto forma di codice civile, codice di procedura civile, codice penale; quando ogni giorno centinaia di professori insegnano a migliaia di studenti le leggi firmate da Mussolini. L’unica riforma degna di questo nome, repubblicana, è quella del processo penale del 1988 che ancora oggi viene chiamato il ‘nuovo’ processo penale”.
Tasto dolente resta il Csm. Dopo il suo rientro dall’Aja, dottor Tarfusser, lei si è candidato a ricoprire uffici direttivi ma il Csm non ha accolto neanche una delle nove proposte da lei avanzate. “La mia colpa è di non far parte del sistema; e sono orgoglioso di non farne parte. Il Consiglio della magistratura – che non definirei ‘superiore’ perché di ‘superiore’ non ha nulla - non mi ha ritenuto degno nemmeno di un voto in ben nove concorsi per uffici direttivi cui ho partecipato. Troppo autonomo, troppo indipendente e quindi incontrollabile. Sogno un ministro che promuova una riforma del Consiglio in modo da renderlo un organo tecnico-amministrativo davvero ‘superiore’, nel senso inteso dai padri costituenti, liberandolo dal perverso sistema correntizio. Nel Csm andrebbe ridotta la quota di componenti togati per sostituirli con esperti in materia di organizzazione, gestione di risorse, management. Sogno un ministro che, consapevole di essere, per dettato costituzionale, responsabile dell’organizzazione e del funzionamento della giustizia, si dedichi davvero alla sua organizzazione e al suo funzionamento. Quindi, preso atto della mancanza di capacità manageriali, dell’irresponsabilità nella gestione economica e organizzativa dei vertici degli uffici giudiziari, della sempre più diffusa disaffezione professionale del personale amministrativo e della crescente burocratizzazione del sistema, si dedichi a elaborare e a sviluppare strategie e modelli di cambiamento e modernizzazione amministrativa; un ministro che attivi progetti di semplificazione e riorganizzazione dei processi amministrativi interni ed esterni in un’ottica di omogeneizzazione e recupero di risorse, tempo e persone. E’ necessario sviluppare i sistemi informatici per garantire capacità di monitoraggio e controllo dei processi di lavoro e dei risultati, dobbiamo automatizzare le procedure di tipo seriale e semplificare l’accesso degli utenti alle informazioni e ai servizi della giustizia. Il ministro della Giustizia dovrebbe rivedere le politiche del personale e le relazioni sindacali per premiare impegno e risultati, e per riqualificare il personale amministrativo”.