I ministri giusti e le smentite dei primi fatti. No al populismo ostativo

Claudio Cerasa

Sulla giustizia (ergastolo e chiavi “da buttare”) e sul Covid (bene la piccola marcia indietro sulle mascherine) al governo Meloni non riesce l’operazione make-up. Non va bene, è ora di decidere

Le prime due settimane di vita, in Parlamento, della maggioranza a trazione meloniana offrono agli osservatori segnali contraddittori rispetto alle intenzioni future del governo guidato dalla leader di Fratelli d’Italia. Il primo segnale, quello registrato in apertura della legislatura, e negli stessi istanti in cui Silvio Berlusconi mandava a quel paese il futuro presidente del Senato, Ignazio La Russa, è risultato essere un segnale politico non episodico ed è un segnale che ci dice in modo inequivocabile che le tre punte del centrodestra, per ragioni diverse, continueranno a marciare divise, litigando su tutto, per provare a colpire unite, sì, ma senza avere ancora di fronte a sé un progetto politico né unitario, né chiaro, né definito, né liberale. E così il film osservato in questi primi giorni promette di essere il film di tutta la legislatura: Meloni non perde occasione per mostrare al pubblico il make-up della moderazione, Berlusconi non perde occasione per dimostrare che è lui il vero padre della coalizione e Salvini non perde occasione per provare a dimostrare di essere lui il vero custode dell’ortodossia sovranista. Come inizio, non c’è male.

 

Il secondo segnale importante registrato in queste settimane è quello legato alla natura politica e per così dire della maggioranza e riguarda la volontà, questa sì incoraggiante, di mettere in mostra alcuni simboli interessanti da studiare. Da un lato ci sono i profili scelti dal centrodestra per guidare la Camera e il Senato e i profili di Ignazio La Russa, eroe della battaglia contro la Gangel Gultur anti Mussolini, e di Lorenzo Fontana, che in passato tra i leghisti filorussi è stato uno dei più sinceri difensori del modello putiniano, ci dicono che la destra ha scelto di dare forte dignità a due soggetti politici incapaci di esprimere una discontinuità con un passato di destra fatto di grandi e piccole ambiguità (ambiguità sul fascismo, ambiguità sul putinismo).

   
Dall’altro lato, invece, una simbologia ulteriore, e interessante, è quella che ha riguardato la presentazione della squadra di governo e l’illustrazione dei contenuti del discorso di insediamento della nuova premier e in questo caso le due occasioni hanno offerto buone ragioni per tirare un sospiro di sollievo rispetto alla prospettiva che il sovranismo potesse essere impacchettato dentro un graziosissimo loden. Un ministro dell’Economia europeista, un ministro dello Sviluppo non protezionista, un ministro dell’Interno non nazionalista, un ministro della Salute non anti vaccinista, un ministro degli Esteri atlantista, un anti europeismo messo nel cassetto, un ministro della Giustizia garantista, un discorso costruito per rassicurare gli osservatori rispetto alla possibilità concreta che la svolta moderata del populismo possa essere qualcosa di diverso da una semplice utopia. Una volta però archiviati i passaggi più simbolici, i nomi della squadra, le parole del discorso, alcuni fatti messi in campo da Meloni hanno contribuito a mostrare il volto in purezza del melonismo e su almeno due terreni di gioco la natura irreversibile del populismo, in appena due settimane, è già emersa con chiarezza.

 

Un fronte è quello legato ai vaccini, un altro fronte è quello legato alla giustizia e in entrambi i casi, con il massimo rispetto, la domanda per i ministri investiti dal tema è la stessa: ma i profili moderati scelti per governare l’Italia esprimono una reale intenzione dei governanti o sono solo delle foglie di fico utili a nascondere il vero volto del populismo?

 

Sui vaccini la questione è evidente e l’ha perfettamente sintetizzata la scorsa settimana il capo dello stato, con parole semplici: “Dopo oltre due anni e mezzo di pandemia non possiamo ancora proclamare la vittoria finale sul Covid-19. Dobbiamo ancora far uso di responsabilità e precauzione”. L’intenzione della destra nazionalista invece, e di questo il ministro Orazio Schillaci dovrebbe essere consapevole, a meno che non voglia essere complice di questa tendenza, è quella di usare la pandemia come un terreno utile a squadernare la cosiddetta politica della rivincita: via gli obblighi, via le multe, via le mascherine, via ogni regola, demonizzazione del passato, liberi tutti e nessuna parola sull’importanza dei vaccini, sulla centralità della quarta dose, sulla necessità di coniugare la ritrovata libertà con la prudenza e la responsabilità (salvo una parziale marcia indietro sulle misure anti Covid dopo una robusta rivolta della comunità scientifica e di gran parte delle regioni italiane, anche di destra).

 

Allo stesso modo, se si cambia terreno di gioco, lo stesso problema riguarda la giustizia. Ieri all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri è stato presentato un decreto legge sulla giustizia che inizialmente doveva comprendere una misura considerata evidentemente per la destra populista una priorità: il superamento delle attuali norme sull’ergastolo ostativo. Il messaggio di Meloni era chiaro e apparentemente inoppugnabile: si deve modificare la Costituzione per impedire che i mafiosi vengano liberati e occorre che chi ha commesso gravi reati non abbia in nessun modo la possibilità di vedersi riconosciuto alcun beneficio. La proposta del governo, in verità, all’ultimo istante ha cambiato verso: Meloni, alla fine, ha citato solo en passant l’eventualità di una modifica della costituzione, riconoscendo anche lei che al momento non è possibile farlo, e dopo molte chiacchiere si è appiattita sulla scelta fatta dalla precedente maggioranza, che sul tema ergastolo ostativo aveva già accolto le obiezioni avanzate dalla Corte costituzionale.

 

Ma per capire la pericolosità delle intenzioni di Meloni può essere utile fare un piccolo passo indietro. Qualche mese fa, chi scrive ha avuto la possibilità di chiacchierare con il nuovo ministro della Giustizia, Carlo Nordio, proprio su questi temi, e per spiegare la pericolosità di Meloni, sui temi della giustizia, è sufficiente lasciare la parola all’ex magistrato. “Io – ci ha detto Nordio – penso che l’ergastolo ostativo, il principio cioè che al reo non venga concessa la possibilità di alcun beneficio, sia un’eresia contraria alla Costituzione. Bisogna strutturare la legge in modo che l’ergastolo possa rimanere come principio ma bisogna anche ricordarsi cosa dice l’articolo 27 della Costituzione. Ovverosia: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

  

Sintesi di Nordio: “Spiace per chi a destra la pensa così, ma il punto è evidente: il fine pena mai non è compatibile, al fondo, con il nostro stato di diritto”.

  

E allora, abbiamo chiesto a Nordio, cosa c’è da pensare di chi dice quando si parla di carceri, magari quando si parla di un caso di cronaca che colpisce la sensibilità dei cittadini, “buttiamo via le chiavi”, e la risposta di Nordio è in totale contraddizione con la linea imboccata dal governo di cui fa parte. “E’ un’espressione vergognosa. Gettare via le chiavi non ha nessun senso ed è un’espressione purtroppo mutuata da una vecchia prassi del pool di Mani pulite che qualche volta usava quel tipo di espressione per minacciare la carcerazione preventiva. Al di là del fatto di fondere le chiavi, di buttarle nel pozzo eccetera, la criminologia moderna in tutti i sensi è orientata verso una rivoluzione del concetto di pena: il carcere deve essere sempre più limitato a quei gravi reati che provocano un grave allarme sociale. Una destra desiderosa di spingere forte sul terreno del garantismo questo dovrebbe fare e questo dovrebbe ricordare. Dovrebbe ricordare che la pena detentiva deve essere un concetto se non superato quantomeno molto rimodulato. Il peccato più grande della destra oggi, quando si parla di giustizia, è proprio questo: confondere la sicurezza con la giustizia, pensare che la sicurezza, sulla quale siamo tutti d’accordo che deve esistere un’attenzione particolare, debba essere garantita non solo dalla giustizia, dal suo sistema, ma dalla presenza di una pena severa. Abbiamo un sistema penale che minaccia delle pene esorbitanti. Invece, purtroppo, buona parte della filosofia della destra, quella più gridata, è stata a lungo questa: la giustizia dipende della sicurezza, la sicurezza va garantita a tutti i costi, per garantire la sicurezza si possono calpestare alcuni diritti e calpestare alcuni diritti significa, per esempio, creare nuovi reati e inasprire le pene”.

   

Il vero volto della destra nazionalista – volto che la maggioranza meloniana prova a nascondere dirottando il dibattito pubblico su altre battaglie simboliche come quelle sui rave party – è quello offerto dal bravo ministro Nordio in queste parole. E se si sceglie di mettere da parte il terreno della simbologia e si sceglie di mettere a fuoco il terreno della fattualità delle azioni si capirà con estrema chiarezza che il populismo di destra sotto il suo make-up nasconde sempre lo stesso volto, segnato in modo indelebile da una forma irreversibile di populismo estremista. Oltre i rave party, caro Pd, c’è molto di più, e c’è una battaglia possibile contro il complottismo, contro il giustizialismo, contro lo stato di diritto e contro la cultura dello scalpo. Svegliarsi.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.