l'intervista
Il piano del ministero del Made in Italy per dare slancio alle imprese. Parla Adolfo Urso
Il ministro spiega le vie della post-globalizzazione e il nostro ruolo centrale. Molto Atlantico, poca Cina. “Il nostro interesse nazionale è lo spirito dei fondatori europei”. Difesa, digitale, energia (modello Draghi). Ecco i piani. “Tutela da azioni ostili, non dal capitale estero”
Sopra il portone di palazzo Piacentini in Via Veneto c’è ancora scritto ministero dello Sviluppo economico, ma presto diventerà ministero delle Imprese e del Made in Italy. Non cambia solo il nome, cambiano anche le cose? E come cambiano? Alzeremo barriere, giocheremo in difesa, terremo gli invasori fuori dalle mura? Sbagliato, il messaggio è del tutto diverso, spiega Adolfo Urso. “Ho scelto le imprese perché sono loro le protagoniste, sono loro che creano ricchezza, lo sviluppo è il contesto, il risultato. E il made in Italy, perché è il terzo marchio più conosciuto al mondo dopo la Coca-Cola e la Visa”. Niente protezionismo, allora? Niente mangiamo sano, mangiamo italiano? Niente stato pigliatutto? Il ministro sorride e non ci casca: “Il made in Italy piace perché è fatto di cose belle e cose buone. Lo dicevo fin da quando me ne sono cominciato a occupare come ministro del Commercio con l’estero vent’anni fa. Oggi aggiungerei un’altra qualità, piace perché è sostenibile. I consumatori sono più consapevoli e in particolare quelli che acquistano prodotti italiani chiedono qualità”. Meno plastica e più cuoio? “Non solo: più diritti, più rispetto delle regole sul lavoro, elevati standard sociali e ambientali”.
Eravamo andati al Mise (o forse fra poco l’acronimo sarà Mimit?) per sapere che cosa farà il governo con i dossier industriali che il governo Draghi ha lasciato aperti e ci troviamo di fronte all’Europa dei padri fondatori, alla globalizzazione euro-atlantica, al capitale straniero benvenuto purché senza sopraffazioni, lo stato stratega non interventista, l’autonomia strategica invece del sovranismo. E’ come se Adolfo Urso volesse trasformare la sua fondazione Farefuturo in Farepresente, e anche in questo caso non è un gioco di parole ma uno sforzo per invertire la narrazione sulla destra al governo.
E’ arrivato il momento di parlare di economia, economia reale precisa il ministro. La priorità doveva essere il sostegno a famiglie e imprese, invece hanno fatto irruzione No vax e rave party. Intanto le bollette diventano più leggere, il prezzo del gas scende rapidamente, la crescita del pil continua e, se le previsioni sono confermate, non si fermerà nemmeno questo trimestre. Insomma, Mario Draghi ha trasmesso una bella eredità. “Sarebbe stato ancora meglio se la Ue avesse già realizzato gli interventi che Draghi aveva proposto a primavera, come il price cap o il disallineamento dei prezzi dell’elettricità da quelli del gas; ci saremmo risparmiati alcuni mesi di sofferenza”, commenta Urso. Quattro fattori hanno contribuito a invertire la corsa del metano: l’Unione europea ha lanciato il segnale giusto, cioè che è il principale cliente al mondo in grado di influenzare in modo significativo la domanda, intanto sono stati completati gli stoccaggi e ciò ha calmierato i mercati. L’allungamento del periodo estivo e il rallentamento della crescita internazionale hanno fatto il resto. L’economia italiana ha retto bene, i servizi (a cominciare dal turismo) hanno compensato il calo delle esportazioni che ha frenato l’industria manifatturiera. Il sistema Italia può contare su una composizione merceologica ampia, diversificata per settori e grandi comparti, e ciò lo rende più solido di altri: “Siamo i secondi in Europa nella manifattura dopo la Germania, numero due in agricoltura e turismo dopo la Francia e soprattutto in quest’ultimo campo possiamo fare anche di più”. Chiuderanno tutte le aziende, si diceva durante la campagna elettorale. Il tempo della propaganda è finito.
Ma su quali obiettivi prioritari il ministero delle Imprese e del made in Italy vuole puntare? Urso a questo punto compie un ampio giro d’orizzonte, e intanto ne anticipiamo le conclusioni. L’Italia può giocare un ruolo importante, di primo piano e su base paritetica, in tre grandi aree strategiche: la Difesa, l’energia e il digitale. E può acquisire un vero vantaggio competitivo nel Mediterraneo, nel medio oriente allargato e in Africa. Il modello da seguire è quello di Enrico Mattei, attraverso accordi win-win con i paesi e con le imprese locali, un modello italiano che fa scuola. Vasto programma, forse troppo vasto per un solo governo, ma secondo il ministro è una strada obbligata che parte dal nuovo scenario internazionale. In Cina è avvenuta una svolta netta rispetto all’èra precedente. “Con il suo terzo mandato Xi Jinping rende esplicito il proprio progetto imperiale – spiega Urso – La vecchia guardia si è presentata al XX congresso del Partito comunista con i capelli bianchi come segno di resa esistenziale, non solo al nuovo potere. I cinesi che non credono nell’aldilà si tingono i capelli come attaccamento alla vita, lasciarli imbiancare è un arrendersi alla morte. E non è bastato, l’ex presidente Hu Jintao è stato prelevato e accompagnato per così dire alla porta. La Cina oggi privilegia la sicurezza nazionale e il controllo politico-sociale anche rispetto alla crescita, sotto la regia dello stato e non del mercato”. Urso ricorda le analisi della sua fondazione e i dibattiti, anzi i voti unanimi al Copasir, sul nuovo pericolo cinese. Averlo capito non elimina il problema per l’Italia. Un governo, quello gialloverde, ha aperto le porte alla nuova Via della seta assumendo impegni solenni. Adesso occorre trovare il modo per disincagliarsi, a cominciare dalla presenza in settori strategici. Già Draghi aveva cominciato a discutere con la Cassa depositi e prestiti anche se non c’è una facile soluzione e sarebbe comunque molto costosa, tra i due e i tre miliardi di euro.
“Per l’Italia la svolta cinese è un problema, per la Germania è il problema – dice il ministro – Dobbiamo comprendere il disagio tedesco, il suo modello si è basato finora su tre pilastri: energia dalla Russia a basso costo, più basso che negli altri paesi europei, per produrre grazie alle regole che ha dettato in Europa ed esportare poi in Cina. Tutto questo oggi è cambiato”. E l’Italia deve approfittarne? “Se il porto di Amburgo apre alla Cina deve essere chiaro che ciò non vale per Trieste. Ma non si può andare avanti caso per caso, la risposta è una politica industriale europea”. Europea non nazionale? “Il nostro interesse nazionale si difende meglio tornando allo spirito, al metodo e agli obiettivi dei padri fondatori, Adenauer, Schuman e De Gasperi. Lo spirito, cioè costruire insieme la casa comune, il metodo basato su rapporti paritetici, gli obiettivi ovvero i pilastri che reggono la casa: la difesa e la sovranità energetica. La difesa comune non si è fatta perché si è opposta la Francia; la Ceca, la Comunità del carbone e dell’acciaio, si è dissolta e la casa comune si è occupata dell’arredo, cioè del commercio. Così, nella difesa dipendiamo dagli Usa (e per fortuna), nell’energia dalla Russia, nella tecnologia rischiamo di diventare dipendenti dalla Cina. Per questo, al progetto dei padri fondatori oggi aggiungerei il digitale dove l’Europa è più indietro rispetto agli Stati Uniti. Nel costruire ciascuno di questi pilastri l’Italia può dare un contributo importante”.
Come e con quali strumenti? Prendiamo la Difesa. L’industria italiana è competitiva, sottolinea Urso, e l’esercito ha dato ampie prove nelle sue numerosissime missioni all’estero. Dunque Leonardo più le Forze armate sono punti di forza per la difesa europea nell’ambito della Nato, insieme agli altri paesi europei, a cominciare dalla Germania che s’avvia a diventare anche una potenza militare e dalla Francia che è una potenza nucleare. “Oggi nella Ue ci sono 180 sistemi d’arma, negli Usa appena 30, una dispersione di risorse provocata da egoismi e particolarismi nazionali”, spiega Urso. Nell’energia abbiamo aziende di prim’ordine, Eni, Enel, Terna, Snam, e ci sono tutte le condizioni per trasformare l’Italia in hub energetico non solo europeo: “Pensi al gas. Possiamo raddoppiare il flusso del Tap in un anno, basta intervenire in Grecia e Albania; abbiamo il progetto Poseidon che porterà il metano da Israele a Otranto, grazie anche alle scoperte dell’Eni; è possibile collegarci ai sette rigassificatori spagnoli oggi sottoutilizzati perché la Francia finora si è opposta; se Parigi non cambia posizione, possiamo intervenire. C’è la produzione nazionale, non potremo tornare ai 13 miliardi di metri cubi di dieci anni fa, ma raddoppiarli da tre a sei è realistico. Inoltre, esiste nell’Adriatico il giacimento da 70 miliardi di metri cubi che non utilizziamo”. Sono gli stessi progetti del governo Draghi, e Urso non nega che stia lavorando su quella base, del resto Roberto Cingolani non è affatto uscito di scena, almeno per il momento. Lo stesso vale per il digitale. Il ministero non c’è più, ma restano da realizzare gli insediamenti produttivi progettati: Intel per i semiconduttori, le batterie a Termoli e Torino, i pannelli solari nell’Etna Valley, il rafforzamento della Stm, una joint venture italo-francese che funziona. Senza addentrarci nel labirinto della rete unica: Vittorio Colao era contrario e oggi il nuovo governo pende a favore. Dunque, tutto come prima? E dov’è la discontinuità?
“L’incontro tra Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron è stato molto franco, il rapporto tra Italia e Francia deve essere paritetico”, ribadisce Urso. Senza sopraffazioni, ha detto il capo del governo italiano, ma quali sono queste sopraffazioni? “Ne abbiamo discusso al Copasir e in modo del tutto bipartisan”, aggiunge il ministro e cita la mancata fusione tra Fincantieri e Chantiers de l’Atlantique, le tensioni sulla cooperazione spaziale (c’è un accordo firmato insieme al Trattato del Quirinale), ma anche Stellantis. In Francia sostengono che l’Italia s’è comprata la Peugeot, questione di punti di vista? “Doveva essere una integrazione, alcuni qui sostengono che sia stata una incorporazione e lo stato francese ha un importante pacchetto azionario”, ribatte il ministro che cita Luxottica come esempio positivo. “Sono per la internazionalizzazione, non per la delocalizzazione, e sono a favore di investimenti esteri”.
Il golden power, però, è stato esteso a macchia d’olio e questo diventa un ostacolo. “Va usato con saggezza avendo come riferimento la sicurezza nazionale e lo sviluppo economico. Dobbiamo tutelarci da azioni ostili, non dal capitale straniero”. Quindi niente nazionalizzazioni? Prendiamo Ita Airways. “Il Tesoro ha riaperto la gara e credo che solo una corretta competizione possa garantire lo sviluppo. Non abbiamo bisogno di una compagnia di bandiera, ma di una compagnia aerea per rafforzare il turismo e sostenerlo con infrastrutture efficienti in una logica di sistema”. Un’altra grana non da poco riguarda la Isab e le raffinerie di Priolo. “Abbiamo usato il golden power chiarendo che non è sottoposta a sanzioni e fino al 5 dicembre può acquistare petrolio russo. La nostra priorità è garantire la produzione anche dopo e per questo abbiamo sbloccato le potenzialità finanziarie dell’azienda che è sana e fa utili. Se poi altri imprenditori volessero prendere il posto della Lukoil… Lo vedremo”.
Urso tiene a spiegare che “il nostro progetto corrisponde alla natura e all’identità del nostro paese e nasce da un’analisi della nuova fase mondiale segnata dalla de-globalizzazione”. E qui viaggia sull’onda dei ricordi. “A Doha nel 2001 si era aperto il round del Wto che non s’è mai chiuso, sotto l’impatto dell’11 settembre e del primo attacco agli Usa. L’idea era coinvolgere la Cina in un progetto di governance mondiale. Un anno dopo a Pratica di Mare si voleva coinvolgere la Russia nella sicurezza globale. Tutto questo è cambiato dal 2013, l’anno in cui in Russia il generale Gerasimov lancia la sua dottrina sulla guerra ibrida contro l’occidente e in Cina prende il potere Xi Jinping. Da allora Mosca ha seguito una logica di potenza con le materie prime e le armi, Pechino con il commercio, diventando la fabbrica del mondo. Abbiamo stentato a capire il punto di svolta, ma da allora la globalizzazione è entrata in crisi”. E adesso è al tramonto? “Aveva ragione John McCain nel 2008 quando sfidò Obama, il quale pensava a un dualismo Usa-Cina, proponendo invece un’area euro-atlantica di libero scambio e sicurezza collettiva”.
La globalizzazione degli alleati ora viene adottata anche da Joe Biden, ma vuol dire dividere il mondo in blocchi, il che non è esattamente global. “Ci sono gli alleati e ci sono i partner, con i primi si condividono i valori, con gli altri gli interessi. Per esempio, Israele è un alleato l’Arabia Saudita può essere solo un partner. Io penso che si debba inserire nel commercio mondiale una clausola sul commercio libero e leale. Sono a favore, dunque, di dazi compensativi sui prodotti di paesi che non rispettano gli standard ambientali e sociali”. Lo ha proposto Donald Trump. “Lui aveva di mira Messico e Canada per proteggere l’industria americana dell’auto, io penso ad altri paesi”. La Cina? “Anche il Brasile, per esempio, certo non i paesi poveri, ma quelli che hanno già raggiunto un certo livello di sviluppo e utilizzano il dumping per crescere ancora”. Questa è discontinuità, Draghi non avrebbe mai proposto dazi neppure socio-ambientali. Il dessert viene alla fine, dunque. Ma qui dobbiamo interromperci perché arriva un’altra rogna. C’entrano i cantieri, c’entra la Finlandia, c’entrano i sostegni pubblici italiani (60 milioni di euro in sei anni). La multinazionale Wärtsilä vuole tagliare la produzione di motori navali a Trieste per riportarli a casa. Fincantieri minaccia di rompere ogni collaborazione. E’ il colpo di coda del re-shoring, del rimpatrio, della de-globalizzazione. Ma non c’è più tempo per discutere, esce il giornalista, entrano le imprese e il made in Italy.
L'editoriale dell'elefantino