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Il Pd tarda a incamminarsi per la traversata nel deserto dell'opposizione

Francesco Cundari

Gli orizzonti di sabbia del Partito democratico. Non impara la lezione. Ci riuscì Berlusconi dal ’95 al 2001, poi stravinse

La prima volta in cui la sinistra post-comunista si trovò di fronte il deserto dell’opposizione da attraversare – quel deserto da cui credeva di essere appena uscita, dopo quasi mezzo secolo, e che ora le rispuntava malignamente davanti – la condanna si rivelò assai meno pesante del previsto. Invece dei temuti cinque anni di traversata, all’indomani dell’inattesa vittoria del centrodestra alle elezioni del 27 marzo 1994, sarebbe bastata una passeggiatina di nove mesi, giusto il tempo per concepire e dare alla luce il primo governo di larghe intese nato dalla spaccatura della maggioranza precedente. Un’arte che negli anni i dirigenti della sinistra avrebbero avuto modo di affinare fino al virtuosismo.  

  
Va anche detto che allora, dopo la batosta, non ci misero sei mesi a cambiare il segretario
. Non cominciarono a discutere di come rifondare il partito, rigenerare la sinistra, aprire una fase costituente, lavare il mare e asciugare l’aria, mentre ciascuno restava comodamente al suo posto come se niente fosse. 

 

Il caso Dini: questa capacità di  accogliere nelle proprie file persino gli avversari più acerrimi è un’arte che la sinistra avrà agio di perfezionare

 
Al contrario, in poco più di due mesi, e dopo un’altra tremenda mazzata alle elezioni europee di maggio, si va per le spicce: il Partito democratico della sinistra saluta piuttosto sbrigativamente il suo fondatore, Achille Occhetto, ed elegge subito il nuovo segretario, Massimo D’Alema

  
Per la verità, sebbene molto alla svelta, si svolge anche una strana via di mezzo tra congresso e primarie, con sezioni e federazioni coinvolte in un’inedita forma di consultazione (“Consultazione, non sondaggio”, spiega ai giornalisti, con il puntiglio di sempre, il responsabile Piero Fassino).

  
Sondata o consultata che sia, la base si pronuncia a maggioranza per Walter Veltroni. Ascoltata la voce degli iscritti e preso atto del risultato, poche settimane dopo, il consiglio nazionale del partito elegge dunque D’Alema (del resto, Fassino lo aveva detto subito che non sarebbe stato “un semplice spoglio di schede”, perché “l’interpretazione delle indicazioni e la sintesi finale” avrebbero richiesto “una lettura politica”).

 
Uomo pragmatico, poco incline alla retorica e ancor meno alle pubbliche relazioni, il nuovo segretario si dedica immediatamente a una serie di laboriose trattative trasversali, con i centristi di Rocco Buttiglione e persino con la Lega di Umberto Bossi, mentre il governo di Silvio Berlusconi incontra i primi inciampi ed è costretto alle prime marce indietro, dal decreto Biondi sulla carcerazione preventiva (subito ribattezzato dalla stampa “salva-ladri”), che suscita una veemente risposta da parte della magistratura e anzitutto del pool di Milano, con una clamorosa conferenza stampa in cui Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco e Gherardo Colombo annunciano le proprie dimissioni, fino alla riforma delle pensioni, cui risponde un’imponente mobilitazione dei sindacati. In altre parole, quale che sia il giudizio sulle soluzioni immaginate allora, bisogna ammettere che il Cavaliere affronta subito e di petto due questioni delicatissime e centrali, destinate a pesare sul futuro degli italiani per generazioni. Un errore che nei suoi successivi governi non ripeterà. 
Sta di fatto che il 22 dicembre 1994 il primo governo Berlusconi è già caduto. La Lega di Bossi gli toglie la fiducia per appoggiare, insieme con i centristi di Buttiglione, con il Pds di D’Alema e con il grosso dei suoi alleati progressisti, un esecutivo – ovviamente di emergenza, responsabilità, salvezza nazionale – guidato da Lamberto Dini, ex ministro del Tesoro nel governo precedente, sapientemente sfilato al nemico e utilizzato contro di lui (in occasione delle elezioni del 1996 Dini si farà anche un partito, spiritosamente chiamato “Rinnovamento italiano”, e con il suo 4 per cento sarà decisivo per la vittoria del centrosinistra, in cui militerà fino al 2008, quando farà ritorno nel centrodestra). E anche questa capacità di attirare e accogliere nelle proprie file, purificandoli istantaneamente di tutti i passati peccati, persino gli avversari più acerrimi, demonizzati fino a un minuto prima, è un’arte che la sinistra italiana avrà agio di perfezionare con cura.  

 
Il Cavaliere prima prova a fare buon viso a cattivo gioco, poi protesta con forza, come farà in tutte le successive occasioni, denuncia il “ribaltone”, grida al “golpe” e chiede elezioni anticipate. Al voto si va però solo nel 1996, e le elezioni le vince, grazie alla divisione degli avversari (la Lega si presenta infatti da sola), la neonata coalizione di centrosinistra, guidata da Romano Prodi. 

 
La lunga traversata nel deserto tocca dunque al Cavaliere, e quanti non lo avevano già fatto dopo la repentina caduta del suo primo governo, si affrettano ora a stilarne, ingenuamente, il necrologio politico.

 
Dalla prova Berlusconi esce invece più forte che mai. Stravince le successive elezioni del 2001 e governa per cinque anni filati, perde di un soffio appena le elezioni del 2006 e torna a ri-stravincerle già nel 2008, con una maggioranza ancora più ampia. E persino nel 2013, pur avendo dovuto lasciare il governo, due anni prima, tra scandali personali e spread alle stelle, con l’Italia sull’orlo del default, manca di un pelo la più clamorosa delle rimonte. 

 

Il battesimo del fuoco del Cav. come leader politico, un’opposizione che gli insegnerà l’arte della ritirata, della guerriglia e della controffensiva

   
Si potrebbe anzi dire che sarà proprio quella prima, terribile, lunghissima traversata nel deserto dell’opposizione, durata oltre sei anni, dopo appena sei mesi di governo, battuto prima da una manovra parlamentare e poi nel voto popolare, il suo vero battesimo del fuoco come leader politico, la prova che gli insegnerà l’arte della ritirata, della guerriglia lenta e paziente, e della controffensiva impetuosa. Ma i suoi avversari, a sinistra, non appreser ben quell’arte.

  
La lunga stagione all’opposizione, dopo la sconfitta del 2001, la passeranno infatti pressoché interamente ad autoprocessarsi, tra richieste di abiura, autodafé e qualche occasionale tentativo di linciaggio. Due i principali capi d’accusa, chiaramente esposti da Nanni Moretti, per una breve stagione leader spirituale del movimento dei girotondi: il dialogo con Berlusconi (in particolare sulle riforme, con la deprecata commissione bicamerale) e la mancata alleanza con le altre forze del centrosinistra (sì, esatto: proprio come oggi), e in particolare con Fausto Bertinotti, leader di Rifondazione comunista. Va detto, per dovere di cronaca, che Bertinotti era stato quello che nel 1998 aveva fatto cadere il primo governo Prodi. 

  
La lezione che i dirigenti del centrosinistra ne traggono è dunque che occorre tornare esattamente alla casella di partenza, ricandidare Prodi e rifare pure l’alleanza con Bertinotti, cui il Professore, dopo la risicatissima vittoria, consegnerà addirittura la presidenza della Camera (anche questo è stato ricordato di recente, alla voce: precedenti di cui forse potevamo fare a meno). E senza ricavarne neanche un po’ di gratitudine. Sarà infatti proprio Bertinotti, a meno di un anno dalla formazione del governo, a dichiararlo “fallito” in un’intervista, parafrasando una vecchia battuta sul più grande “poeta morente” della letteratura italiana. 

  
Il più grande governo morente della storia repubblicana, appeso al voto dei senatori a vita e alle intemperanze dei numerosi ministri della sinistra radicale (diverranno celebri per manifestare in piazza al pomeriggio contro i provvedimenti votati in Consiglio dei ministri al mattino), e persino ai regolamenti di conti interni alla Quarta internazionale (in maggioranza sono rappresentati anche vari filoni del trotzkismo), finirà di soffrire al termine di quello stesso anno, dopo che Walter Veltroni, in via di incoronazione come segretario del nascente Partito democratico, avrà annunciato l’intenzione di correre da solo alle successive elezioni, liberandosi una volta per tutte dell’ingovernabile coalizione. Gli alleati con cui nel frattempo Prodi sta governando, com’era prevedibile, non la prendono bene. Il ministro della Giustizia Clemente Mastella, messo ulteriormente sotto pressione da inchieste che coinvolgono anche sua moglie, abbandona la coalizione e passa – ma sarebbe più giusto dire, anche in questo caso, “torna” – con il centrodestra (per la cronaca, saranno tutti assolti, nel merito, nel 2017, cioè nove anni e cinque governi dopo).

 

La seconda rivincita di Berlusconi lascia il Pd veltroniano intontito. Si consola con il premio della critica e arrotondandosi la percentuale

   
La seconda rivincita berlusconiana lascia il Pd veltroniano decisamente intontito. Per un po’, come spesso gli accade, prova a consolarsi con il premio della critica, vantando un buon risultato come partito e arrotondandosi la percentuale dello 0,9. Il 33,1 passa bizzarramente agli atti come 34, ma in ogni caso è poco più di quanto Ds e Margherita avevano preso alle elezioni precedenti con la lista comune Uniti nell’Ulivo (31,3 per cento). La sfilza di sconfitte successive (comunali e regionali) porta comunque rapidamente alle dimissioni anche Veltroni, al subentro del suo vice Dario Franceschini e pochi mesi dopo alle primarie tra Franceschini e il suo sfidante Pier Luigi Bersani. 

  

Le brutte esperienze per cui da Monti in poi il centrosinistra, all’opposizione, troverà il modo di non andarci praticamente mai più

   
Eletto trionfalmente segretario nell’ottobre 2009, Bersani si ritrova già ad agosto, a sua volta, sul banco degli imputati, messo sotto accusa dal giovane sindaco di Firenze, Matteo Renzi, che lancia la parola d’ordine della rottamazione contro tutto il gruppo dirigente. E si ricomincia. Proprio come Moretti nel 2002, che in piazza Navona gridava “con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai”, anche Renzi se la prende con l’intero vertice del partito, non disdegnando (come tutti i suoi predecessori nel ruolo) toni apertamente populisti e antipolitici, contro la casta inamovibile del gruppo dirigente, i dinosauri, l’odiato apparato. Negli anni a venire, com’è noto, nulla resterà impunito e ogni affronto gli sarà restituito, con gli interessi.
Sarà anche per tutte queste brutte esperienze che da quel momento in poi – per la precisione dall’anno successivo, con la crisi del governo Berlusconi e la nascita del governo Monti – il centrosinistra, all’opposizione, troverà il modo di non andarci praticamente mai più. E quando proprio non potrà evitare di andarci, come nel 2018, con il primo governo populista guidato da Giuseppe Conte, formato da Movimento 5 stelle e Lega, troverà subito il modo di uscirne, con il secondo governo populista guidato da Giuseppe Conte, formato da Movimento 5 stelle e Pd.

  
Del resto, è noto sin dai tempi più antichi che nel deserto si possono fare anche brutti incontri.

  
Certo è che nel corso delle loro brevissime traversate, volenti o nolenti, i democratici incontreranno subito la tentazione del governo – governo di emergenza, salvezza, responsabilità nazionale, s’intende – e cederanno immediatamente, ogni volta. Senza esitare. In qualche caso – il lettore metta qui i nomi che preferisce – addirittura con voluttà.

  
Oggi, dinanzi a una nuova, pesante sconfitta, Enrico Letta e l’intero gruppo dirigente giura che mai e poi mai tornerà al governo senza passare dal voto, ma intanto si guarda bene dal passare la mano. Letta dichiara l’intenzione di non ricandidarsi al prossimo congresso, dopodiché annuncia che il prossimo congresso si terrà addirittura in primavera (si è votato il 25 settembre, per le primarie si parla ora del 12 marzo).

  
In un clima di depressione generale, il segretario semi-dimissionario definisce il risultato “non catastrofico”, mentre per Andrea Orlando è “non disastroso”, anzi, addirittura un dato “di tenuta”. Tutti i principali dirigenti, nelle interminabili riunioni della direzione seguite alla sconfitta, sottolineano infatti che il Pd ha conservato i voti delle precedenti elezioni politiche. Quello che non dicono è che il risultato delle precedenti elezioni politiche era il minimo storico, e che ciascuno di loro, allora, lo aveva definito una disfatta epocale. Se hanno “tenuto” qualcosa, dunque, si tratta di questo.

 
Nel frattempo, qualche giorno fa, ospite del congresso del Partito socialista svizzero, a Basilea, Letta l’ha messa in questi termini: “La nostra campagna elettorale è stata dura, difficile, molto difficile, alla fine abbiamo ottenuto un risultato che non era quello che speravamo, ci troviamo in uno spazio di opposizione, minoranza, e comincia una traversata nel deserto”.
Resta il fatto che a tutt’oggi, mentre i sondaggi continuano a segnalare impietosamente il precipitare dei consensi, nessuno sembra avere troppa fretta di levare le tende. Ma sarà difficile attraversare il deserto rimanendo fermi.