La recensione

Il circo del Père Lachaise

Luigi Azzariti-Fumaroli

In libreria l'aureo libretto di Philippe Jullian maetsro di snobismo, protagonista del mondo deliquescente della Café-Society

Philippe Jullian si uccise impiccandosi con una cravatta di seta di Charvet. Il modus operandi fu emulativo del gesto con cui, in “Splendori e miserie delle cortigiane”,  il personaggio ambiguo e contraddittorio di Lucien de Rubempré mise fine alla sua esistenza. Forse anche i motivi furono i medesimi, se, come ha suggerito Antonia Byatt, Lucien si toglie la vita perché è sopraffatto dal peso della propria incapacità nel riuscire a trasformare le sue illusioni in quegli atti di forza (morali, psicologici e intellettuali) che gli avrebbero permesso di colmare la frattura tra mondo poetico e mondo reale. La scelta della corde du pendu nel caso di Jullian tradiva invece quello snobismo che aveva in lui messo radici fin da quando, dalla provincia, figlio d’una buona famiglia borghese, era sbarcato nella Parigi dei primi anni Quaranta, garrula e gaudente nonostante l’atmosfera belligerante, diventando da subito protagonista del mondo deliquescente della Café-Society, evocato vent’anni più tardi, con il giusto equilibrio di verve e disincanto, nel suo romanzo forse più riuscito.

 

Certo che la frivolezza sia uno stato violento, Jullian si fa interprete d’una contemplazione estetica che tiene tutto a distanza, mostrando verso ogni cosa un dispetto analogo a quello “d’una di quelle scimmiette che le dame dell’Ancien Régime erano solite trascinare con le loro gonne”. Carl Einstein, nel 1909, sembra anticiparne la posa intellettuale quando, tratteggiando il profilo dello snob, afferma che in questo a predominare è un rigetto del dato quotidiano, una preziosa arroganza che nasce dal vedere la realtà sempre come oggetto d’una scelta raffinata, relativa, estremamente relativa, con il risultato d’una peculiare idealizzazione della sfera personale in quanto simbolo d’un universale assoluto. È in continuità con questo tentativo di raggiungere l’universale attraverso l’idiomatico che Jullian attenderà a quel “Dizionario dello snobismo”, dal quale traspare come per lui non vi possa essere altro che variazione di personaggi, di oggetti, di vezzi, di monture, perché troppo grande è la paura di imbattersi in sé. Ne discende una vocazione al consumo che risponde all’esigenza di non curarsi più della vita, valendo unicamente il suo dispendio: non occorre più produrre in sé il vero io; è sufficiente consumare se stessi, godendo fino in fondo la propria vita.

 

D’accordo con Cioran (non a caso menzionato espressamente nel “Dizionario”), Jullian coltiva uno “snobismo dell’Irreparabile”, che lo fa indulgere fra l’affettazione e la contemplazione della morte. La quale però poco o nulla ha di dannunziano (sebbene al Vate Jullian dedichi una delle sue biografie filologicamente distratte almeno quanto artisticamente simpatetiche che l’hanno reso celebre se non ai più, agli happy few); essa è soltanto un’ulteriore occasione – l’estrema – per esercitare la propria dandistica esecrazione, per potersi dire attediati dalla vita, semplice “aneddoto per il cimitero”.

 

Com’ebbe ad osservare Jasper Griffin in un aureo libretto impegnato, in sintonia con Thacheray, a scovare gli snob nelle letterature d’ogni tempo, lo snobismo non si arresta nemmeno davanti alla tomba. Anzi, “avere il proprio avello al Père-Lachaise è sinonimo di buona borghesia” – ricorda Jullian – “ma quante sfumature all’interno del grande cimitero!”. Nasce da questa perfida osservazione l’ispirazione per “Il circolo del Père-Lachaise”, meritoriamente pubblicato ora da Medusa, ancorché in una traduzione alquanto abborracciata. Vi si immagina – in un catalogo illustrato da disegni che richiamano il tratto vago ed embricato di Ensor e di Pecnard – la sortita dai loro tumuli e sacelli di quei morti ai quali la vanità pare sopravvivere, e che ad Ognissanti si danno appuntamento, quando scende la notte, “per andare al circo o almeno a visitare i loro vicini”. Ma più che d’una kermesse, è d’un grottesco e ferale sabba che si tratta, inferno per i malvagi che ne sono le attrazioni, paradiso per i buoni che si divertono a spese dei dannati. A trovarvi espressione non sarebbe però la “capricciosa e malsana” indole di Jullian – come la giudicò Alvar Gonzales Palacios nel ritratto che vi dedicò in “Persona e maschera” –, ma parrebbe piuttosto l’ammissione d’una disperazione senza salvezza. Solo infatti il disperato non può morire: “come il pugnale non può uccidere i pensieri, così – lo vide per primo Kierkegaard – la disperazione non può consumare il sé che sta a fondamento della disperazione”. E questo stesso destino si perpetua in tutta quella serie di feticci umani e materiali di cui Jullian – ci dice il suo agiografo Ghislain de Diesbach – soleva circondarsi, tributandogli il culto dovuto a reliquie nelle quali “Non c'è il Tutto. / Non c'è il Nulla. C'è/ soltanto il non c'è”. Il continuo gioco in cui estetica e vita si mescolano o sfiorano non sarebbe perciò altro che il tentativo di sottrarsi ad un’autoconsunzione infinita ed irredimibile al punto da guardare alla morte come ad un’esigenza fantastica, da perseguire con ogni mezzo, fosse pure una cravatta – purché, ovviamente, di Charvet.