"La mutazione"
Come sono passate a destra le idee di sinistra? La risposta nel saggio di Luca Ricolfi
L’esito del voto ha infatti reso visibile all’ennesima potenza la tendenza analizzata dal sociologo l’abbandono, nel corso degli ultimi decenni, di tre grandi bandiere un tempo costitutive del Dna della sinistra, dalla difesa dei deboli a quella della libertà di espressione a quella dell’eguaglianza attraverso la cultura
"Left has left”. Così il sociologo Luca Ricolfi, scrive lo stesso Ricolfi, ripensandoci, avrebbe potuto chiamare il suo libro “La mutazione-come le idee di sinistra sono migrate a destra” (ed. Rizzoli), di fronte al risultato elettorale del 25 settembre. L’esito del voto ha infatti reso visibile all’ennesima potenza la tendenza analizzata da Ricolfi nel suo saggio: l’abbandono, nel corso degli ultimi decenni, di tre grandi bandiere un tempo costitutive del Dna della sinistra, dalla difesa dei deboli a quella della libertà di espressione a quella dell’eguaglianza attraverso la cultura, passando per successive tappe di “migrazione” delle idee, con scambio di basi sociali tra sinistra e destra, prima, e scambio di ruolo per così dire “censorio”, poi, con relativa soggezione della sinistra liberal ai dettami del politicamente corretto, in alcuni casi “politicamente folle”, scrive Ricolfi, nei casi in cui l’adesione acritica al “pol-cor” diventa potenzialmente illiberale.
Com’è stato possibile? Quando? Per quali vie? Con quali differenze rispetto agli altri paesi occidentali? Per rispondere a queste domande, il sociologo – anche presidente della Fondazione David Hume e autore nel 2005 del libro profetico “Perché siamo antipatici?”, in cui il complesso “dei migliori” di cui cominciava a soffrire la sinistra italiana appariva già capace di far sedimentare la percezione di una certa “lontananza” dai ceti popolari – ha cercato indizi, numeri, segnali a lungo sottovalutati e poi deiventati sintomi del problema, dall’abbandono delle battaglie per i diritti sociali in favore di quelle per i diritti civili all’incapacità di capire quanto si fosse approfondito il divario tra “esclusi” e “inclusi, lungo la linea di confine tra sicurezza e rischio e garantiti e non garantiti, i nuovi deboli che la sinistra non sembra saper rappresentare.
Ed ecco che, in un’Italia, scrive Ricolfi, “unico grande paese occidentale” ad aver conservato alcune grandi anomalie — “un’economia sommersa di grandi dimensioni, un peso elevatissimo del lavoro autonomo, un divario territoriale profondo e persistente, un consistente esercito di ipersfruttati e quasi-schiavi” — si materializza, inesorabile, il suddetto scambio di base sociale tra destra e sinistra, una sinistra scelta dai ceti medio-alti e scolarizzati. Ma si approfondisce anche lo scarto tra adesione a un liberalismo inclusivo a tutti i costi, in nome delle “battaglie di civiltà”, e scelta di un “comunitarismo” anticapitalista e anti-globalizzazione.
Ed è la destra a percepire, scrive Ricolfi, il “lato oscuro” del progresso. Andando a ritroso, agli anni del boom e a quelli del compromesso storico, si individua il momento in cui la sinistra ha cominciato a sottovalutare l’erosione delle proprie radici operaie, affondando poi, nonostante l’azione aggregativa nei confronti dei cosiddetti “ceti riflessivi” negli anni Settanta, in una progressiva e fatale distrazione, tra gli Ottanta e i Novanta, rispetto al sempre più grande bacino dei “non garantiti”.
“Commiato dai ceti popolari”, lo chiama Ricolfi. Ed è un commiato molto spesso ambiguo, che passa per la scelta di nuovi deboli da difendere – non più operai, ma immigrati o “diversi” dal punto di vista dei diritti – e per una successiva abdicazione al “linguaggio cadaverico” imposto dal “razzismo alla rovescia” e dalla cancel culture. Chi sono gli ultimi? si è domandata la sinistra, dandosi però a un certo punto la patente di “custode del bene” su basi non sociali, ma etico-morali. E il problema è tutto nelle risposte.