Tra roma e bruxelles
Italia, Europa ed energia: tre date cruciali e tre domande aperte
Dalla riduzione dei consumi elettrici nelle ore di punta alla questione degli extraprofitti e del relativo gettito fiscale: tra dicembre e gennaio il governo sarà chiamato a scelte decisive per far fronte alla crisi. Le scadenze, i rischi e le prospettive
Tutti accusano l’Europa di non essere in grado di costruire una risposta comune alla crisi energetica. Ma ciascuno sta facendo la sua parte per renderla possibile? Lo scopriremo presto: sulla scrivania della presidente Giorgia Meloni e dei suoi ministri ci sono in questi giorni una serie di adempimenti necessari a rendere operative le prime decisioni assunte a Bruxelles. In particolare, sono tre le date segnate sul calendario di Palazzo Chigi e dei ministri Giancarlo Giorgetti, Gilberto Pichetto Fratin e Adolfo Urso.
La prima è l’1 dicembre: entro tale data, gli stati membri dovranno informare la Commissione europea di quali iniziative sono state prese per ridurre i consumi elettrici nelle ore di picco. In pratica, occorre definire un numero di “ore di punta” pari ad almeno il 10 per cento del tempo da dicembre a marzo. In tale intervallo la domanda deve essere ridotta di almeno il 5 per cento rispetto allo scenario controfattuale. Questo serve a ridurre il carico domandato nei momenti in cui l’impiego del gas per la generazione elettrica è massimo, e alleggerire la pressione sugli stoccaggi durante l’inverno.
La seconda è il 31 dicembre: si tratta di una scadenza delicata per l’Italia perché riguarda la tassa europea sugli extraprofitti. L’imposta dovrebbe colpire le imprese “che svolgono attività nei settori del petrolio greggio, del gas naturale, del carbone e della raffinazione” e incide sugli utili maturati nel 2022 e nel 2023 eccedenti di almeno il 30 per cento quelli del quadriennio precedente. In teoria l’Italia non è tenuta a introdurre tale tributo, perché già dispone di una tassa sugli extraprofitti. Tuttavia, quest’ultima è stata pesantemente contestata, rischia di cadere sotto i colpi della Corte costituzionale e, soprattutto, ha prodotto un gettito molto inferiore alle attese. Il viceministro dell’Economia Maurizio Leo ha più volte anticipato l’esigenza di rivedere il balzello. E’ possibile, quindi, che l’esecutivo colga l’occasione al balzo. Una buona ragione per seguire questa strada è che, diversamente dalla tassa italiana, quella europea esclude esplicitamente le imprese operanti nel settore elettrico. Infatti, il regolamento dispone l’applicazione di un tetto di 180 euro / MWh ai ricavi derivanti dalla vendita di energia prodotta da fonti diverse dal gas (soprattutto le rinnovabili). Anche in questo caso la previsione si intreccia con una norma nazionale risalente quasi a un anno fa, che riguarda solo alcune fonti rinnovabili (principalmente i vecchi impianti) e pone un tetto compreso tra 60-70 euro / MWh. Pure questa è oggetto di ricorsi che ne mettono sotto accusa la natura discriminatoria (perché alcuni impianti sì e altri no?) e irragionevole (il cap ai ricavi è ingiustificatamente basso). L’adeguamento alle norme Ue potrebbe offrire al governo l’opportunità di uscire da un ginepraio che ha ereditato e che rischia, in caso di successo dei ricorsi, di aprire una voragine nei conti pubblici (o di scaricare extracosti sui consumatori).
Il gettito di queste misure – su cui il governo dovrà riferire a Bruxelles entro il 31 gennaio – dovrà servire a schermare i clienti finali dai rincari delle bollette. Restano alcune domande. La prima è come si possa coniugare una politica pensata per mitigare i prezzi con gli obblighi di riduzione della domanda su cui la Commissione, giustamente, insiste. Tenere i prezzi artificiosamente bassi rischia di fare aumentare i consumi poiché si riduce l’incentivo implicito al risparmio. La seconda è se l’intervento europeo non sia arrivato quando ormai i buoi sono scappati. Tutti gli stati membri hanno adottato misure nazionali, spesso eterogenee, con conseguente rischio di rallentamento del processo di integrazione dei mercati e di effetti asimmetrici sulla competitività dei paesi. La terza è relativa al fatto che il gettito di queste misure sarà diseguale: il cap da 180 euro mette un vasto tesoretto a disposizione dei paesi che usano poco gas nel proprio mix di generazione (come la Francia), e risorse molto più contenute per chi (come l’Italia) ne fa un uso intenso.
E’ importante che l’Italia si concentri su questo aspetto, cercando di costruire una coalizione sulla proposta Gentiloni-Breton di un Sure dell’energia per contenere le disuguaglianze, anziché inseguire chimere come il price cap sul gas che sono tecnicamente complesse, politicamente divisive e probabilmente inutili.