Le tre cose che non tornano nella cautela di Giorgetti sui conti
Avverte che la spesa pensionistica è insostenibile, ma non esclude Quota 41. Dissuade i suoi colleghi ministri dal chiedere modifiche al Pnrr, ma contraddice Meloni su energia e investimenti. Condanna i sussidi indiscriminati, ma li proroga, con l'aggiunta della tregua fiscale. Il titolare del Mef illustra la Nadef alle Camere: e il governo finisce in cortocircuito logico, prima ancora che contabile
A limitarsi a quel che ha detto, verrebbe da condividere quasi tutto. Quasi, ma ci torniamo, perché sulle pensioni il cortocircuito logico, prima ancora che finanziario, è clamoroso. Il problema di Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia che rivendica “un approccio prudente e responsabile”, che si pone in continuità col suo predecessore, che stigmatizza i malvezzi degli stessi governi populisti di cui ha fatto parte (“stimiamo un moltiplicatore basso? Eh, si è visto com’è andata, coi moltiplicatori miracolosi”, ha sbuffato, in riferimento, però, a quando lui era sottosegretario di Giuseppe Conte), insomma il problema del Giorgetti, che ieri ha illustrato la Nadef alle Camere, è quanta della sua cautela sia compatibile coi piani del governo. E su almeno tre punti – pensioni, Pnrr e sussidi – i conti non tornano.
Sulle pensioni, la semplice lettura delle tabelle della Nadef suggeriva previsioni fosche. Ma era un suggerimento sbagliato. Perché le previsioni sono catastrofiche. “Per dare un’idea degli oneri che complessivamente gravano sulla spesa per pensioni per effetto del meccanismo di indicizzazione all’inflazione – ha spiegato ieri Giorgetti – le stime del conto economico a legislazione vigente scontano un incremento di 5,4 miliardi per il 2022, cui segue un incremento di 21,3 miliardi nel 2023, 18,5 miliardi nel 2024 e 7,4 miliardi nel 2025”. E trattandosi di incrementi continuativi, nel triennio “la spesa per pensioni assorbirà risorse per oltre 50 miliardi”. E si può anche riconoscere al ministro dell’Economia l’onestà sui numeri. Meno mirabile è l’onestà intellettuale di un ministro che, a fronte di questi dati, rassicura poi i colleghi leghisti sul fatto che Quota 41 è una “misura che non è esclusa”, anche se andrà finanziata “attraverso qualche forma di compensazione contabile, magari attraverso la manutenzione del Reddito di cittadinanza”. Come a dire che la situazione è drammatica, ma si può fare finta di niente.
La Nadef indica che al 2025 l’Italia spenderà il 16,5 per cento del suo pil in spesa previdenziale: la cifra più alta dell’area Ocse (quindi del mondo) con la Francia, seconda, oltre un punto di pil in meno, e una media europea del 9,9 per cento. Lungi dall’avallare azzardi come Quota 41 – che andrebbe ad aggravare la spesa pensionistica con quasi 6 miliardi all’anno in più, fin dalla sua introduzione – un ministro dell’Economia che voglia essere conseguente col suo “draghismo” dovrebbe suggerire misure che vadano nella direzione opposta: quella, cioè, di ridurre la spesa previdenziale.
Quanto al Pnrr, il messaggio lanciato ieri da Giorgetti andrebbe invece decrittato a favore di FdI. Specie a quegli esponenti che consideravano come cosa fatta il dirottamento dei fondi di investimento europei e dei fondi strutturali residui nel bilancio 2014-2020 sul caro energia. “Tale possibilità presuppone una modifica dei regolamenti europei che consenta maggiori margini in termini di ammissibilità delle misure e una ricognizione delle effettive disponibilità dei programmi operativi, soprattutto nazionali”, ha ammonito Giorgetti. Ribadendo l’ovvio: e cioè che, anziché vagheggiare spericolate riscritture in corso del Pnrr, e “prima di avanzare nuove richieste sugli investimenti”, il governo farebbe bene a migliorare e agevolare le normative che consentirebbero di realizzare davvero progetti del Piano. Sapendo, poi, che per la crisi energetica le richieste andranno avanzate durante la discussione del RePowerEu: “Questo ci permetterebbe non di rivedere o rinnegare il Piano, ma di renderlo implementabile”, ha spiegato il ministro. Che evidentemente, però, nel liquidare con un ironico “eh, sì, sarebbe bellissimo” l’ipotesi di un price cap nazionale, dimostra di non credere al progetto prospettato da Giorgia Meloni: quello per cui basterebbero appena 4 miliardi per realizzare un decoupling su scala nazionale fino ad aprile.
“Sulle disuguaglianze avrete sorprese da questo governo, rispetto a quelli precedenti”, ha detto poi Giorgetti, rivolgendosi ai parlamentari di Sinistra italiana. “Le limitate risorse a disposizione saranno indirizzate verso i soggetti più vulnerabili”. E viene voglia di credergli. Solo che non si capisce perché allora, esattamente come “quelli precedenti”, questo governo perseveri nella logica dei bonus a pioggia. Sul caro energia, ad esempio, Giorgetti ha annunciato non solo per dicembre, ma anche “per i primi mesi del 2023, il rinnovo delle misure relative ai crediti di imposta in favore delle imprese per l’acquisto di energia e gas”, “il taglio al 5 per cento dell’Iva sui consumi di gas” e la riduzione delle accise sui carburanti benzina. Non esattamente, questi ultimi due, sussidi mirati ai più poveri. E certo non pare improntata alla redistribuzione della ricchezza neppure quella “tregua fiscale” evocata da Giorgetti come “un utile sostegno alla liquidità”.