qui casca l'asino
Per la leadership più della competenza serve il carattere
Ci sono molti aspetti del panorama storico e politico che parlano di altro che del solo merito, e che distinguono decisamente la capacità di guida di un partito, di una nazione e di una cultura da un’attitudine manageriale
Si è fatto un gran parlare, mediamente vacuo, del concetto di merito. L’idea è che il merito seleziona in modo equo, offre possibilità a tutti di eccellere, garantisce classi dirigenti pubbliche e private capaci. Dunque onore al merito. Ma qui, per esempio sul termine “onore”, casca l’asino. Si legge con interesse il volume dedicato da Henry Kissinger alla “Leadership” (questo il titolo, Mondadori). E’ un centone corposo dedicato a grandi del Novecento come Adenauer, De Gaulle, Nixon, Sadat, Lee Kuan Yew e Margaret Thatcher. La storia di questi sei colossi segna un’epoca in cui si profila “il passaggio da un modello di leadership ereditario e aristocratico a un modello borghese e meritocratico”, quando “i residui dell’aristocrazia si combinavano con l’emergente paradigma del merito, ampliando la base della creatività sociale e insieme espandendone l’ambito”. Tutto chiaro e forse anche ovvio.
Ma Kissinger è malizioso e inserisce subito una clausola alla luce della quale la banalità evolutiva dei progressi fatti viene rimessa in discussione: “Oggi è facile enumerare i difetti dell’aristocrazia in senso ereditario… meno facile è ricordarne le virtù”.
Con una buona formazione, inserendoti in un curriculum fatto di punteggi alti all’intelligenza e alla competenza, puoi fare grandi cose anche se sei figlia di un droghiere, come Thatcher. Ma qualità come onore, carattere, istinto, devozione al bene pubblico, e altre come tempismo, cattiveria, astuzia, forza e virtù come senso di sé, ecco, questi e altri elementi simili esulano quasi del tutto dal concetto di merito, non sono trasmissibili per via scolastica o per formazione pubblica, non partecipano del beneficio egualitario, borghese, tipico della ruling class nell’epoca dei ceti medi che sostituiscono i famosi “migliori”. Ci sono molti aspetti del panorama storico e politico, che ci portiamo appresso da quasi un secolo, che parlano di altro che del solo merito, e che distinguono decisamente la capacità di guida di un partito, di un popolo, di una nazione, di una cultura da un’attitudine manageriale. La capacità di fare è nulla se non corrisponda a un modo di essere, che spesso viene prima e sta collocato più in alto.
Kissinger studia con acume, e nell’esemplarità dei fatti e dei ritratti di cui è fitto il testo, la crisi del nuovo e inevitabile modello di guida politica venuto dopo la Rivoluzione francese e i grandi equivoci totalitari del secolo scorso; segnala come uno dei problemi maggiori il bisogno di deep literacy, di una complessione di pensiero umanistica che compensi lo squilibrio meramente pragmatico della leadership, una cultura forgiata nella conoscenza storica, nella sensibilità filosofica. E al di sopra di tutto pone anche la questione dei codici di condotta e della prevalenza del carattere sull’intelligenza, per non dire sulla competenza. Ora questa “alfabetizzazione profonda”, che un poco manca (eufemismo) nei protagonisti della politica contemporanea, viene alla mente osservando le alternate vicende del potere in Italia, i dibattiti congressuali del Pd, i diversi protagonismi e le idee sparpagliate che ne derivano. Se pensi a una Elly Shlein, per esempio, corri automaticamente alla pagina 524 del libro di Kissinger, dove si dice che le nuove élite “vengono formate all’interno di un ambiente tecnologico che mette in discussione proprio le qualità caratteriali e intellettuali che storicamente sono servite a legare i leader alla loro gente”.