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Perché quella del fisco non è una tregua giusta

Lorenzo Borga

Il governo dovrebbe guardare ai risultati dei precedenti tentativi di rottamare le cartelle. Le critiche di Bankitalia e della Corte dei conti

Come a (quasi) ogni legge di Bilancio, sono arrivati gli annunci di nuovi condoni. Bisogna ammettere che il centrodestra è stato coerente: lo aveva scritto nel proprio programma elettorale e ora lo mette in piedi. Secondo le anticipazioni fornite alla stampa da membri del governo, le cartelle esattoriali fino a mille euro precedenti al 2015 dovrebbero essere completamente cancellate, mentre quelle fino a 3 mila euro sarebbero dimezzate e ai debiti fiscali superiori sarebbe garantito un taglio delle sanzioni al 5 per cento e la cancellazione degli interessi. Più che una “tregua fiscale”, come la definisce l’attuale maggioranza, sembra una ritirata disordinata. Ancora incerto invece il destino dello scudo fiscale per i capitali all’estero, sembrava cosa ormai certa ma negli ultimi giorni è tornato in bilico.

 

La spiegazione addotta dal viceministro all’Economia Maurizio Leo è che i costi di riscossione sarebbero più elevati degli effettivi possibili incassi per gli enti creditori: “Se ci sono cartelle il cui ammontare non supera i 1.000 euro, i costi di riscossione sono più elevati rispetto a quello che si può riscuotere”, ha detto Leo. Secondo fonti che conoscono bene i meccanismi di riscossione, non esistono stime di questo tipo. Ma al di là di ciò, non si comprende perché allora dimezzare le cartelle tra 1.000 e 3.000 euro, avvicinandole alla soglia sotto la quale la riscossione non sarebbe più economicamente vantaggiosa. Mistero.

 

Eppure questo governo avrebbe la possibilità di imparare dagli errori commessi dai suoi predecessori. Le audizioni parlamentari degli ultimi anni sono piene di testimonianze. Prendiamo per esempio quanto scritto dalla Banca d’Italia nel 2021, chiamata a valutare il decreto “Sostegni” approvato dal governo Draghi che interveniva cancellando le sanzioni per chi non aveva pagato il dovuto ed era stato colpito pesantemente dalla crisi Covid, e cancellato tutti i debiti fiscali fino a 5 mila euro relativi agli anni 2000-2010 per i contribuenti con un reddito fino a 30 mila euro. Banca d’Italia scriveva allora che “queste misure si prospettano come condoni, con le connesse conseguenze in termini di incentivi negativi per l’affidabilità fiscale degli operatori economici e disparità di trattamento nei confronti dei contribuenti onesti”. Parole nette nei confronti di un decreto firmato da un ex governatore della Banca centrale. Commenti ancora più chiari arrivarono dalla Corte dei conti, che chiamata a giudicare gli effetti del decreto li descrisse così: “Disorientamento e amarezza per coloro che tempestivamente adempiono e ulteriore spinta a sottrarsi al pagamento spontaneo per molti altri”.

 

D’altronde, perché un contribuente che dopo sette anni non ha ancora saldato il conto con il fisco dovrebbe ora essere spinto a mettersi in regola in cambio di uno sconto, dopo che per la quarta volta in vent’anni lo stato si prepara ad annullare i carichi pendenti unilateralmente. Gli converrà evidentemente attendere che arrivi anche il suo turno. A dimostrarlo sono i risultati dei precedenti tentativi di rottamare le cartelle, messi nero su bianco dalla Corte dei conti, e anche su questo il governo Meloni dovrebbe prendere appunti.

 

La prima rottamazione delle cartelle – vale a dire, rateizzazione del debito e cancellazione di sanzioni e interessi – fu decisa dall’esecutivo guidato da Matteo Renzi. Sulla carta, le cartelle esattoriali che potevano rientrarvi raggiungevano i 31,3 miliardi di euro. Di questi aderirono contribuenti con 17,8 miliardi di debiti. Ma lo stato non incassò nemmeno la metà di questi soldi: solo 8,4 miliardi di euro. Lo stesso è valso per le rottamazioni bis (potenziale 14,1 miliardi, incassati 2,6) e ter (43,5 vs 6,3 miliardi), a cui tra l’altro fu permesso di aderire anche a quei contribuenti che non avevano pagato quanto promesso nella prima edizione della rottamazione. Poi è arrivata la pandemia, che ha giustificato un’ondata di rinvii dei termini, fino al 31 dicembre 2021 quando degli 1,4 milioni di debitori che avevano aderito alla terza rottamazione, più di 500 mila erano in ritardo con il pagamento delle tasse.

 

E così giungiamo ai giorni nostri. Il 30 novembre scade l’ultimo termine per versare le imposte per questi ritardatari ed ecco che arriva, puntuale, il messaggio dalla politica. “Diamo un po’ di serenità a coloro i quali devono pagare l’ultima rata di rottamazione ter: il 30 novembre chi non ha eseguito i pagamenti del 2022 dovrebbe pagare tutto quanto in un’unica soluzione. Anche queste situazioni penso che potranno in qualche modo essere risolte”. Sono parole, ancora, del viceministro Maurizio Leo. E così la ruota ricomincia a girare, verranno nuovamente estesi i termini, e chi aveva promesso di ripagare tutto entro il 2018 si ritroverà premiato e con i soldi ancora in tasca. Ma soprattutto con “un po’ di serenità” in più, sia mai.

 

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