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"Quota 41? Nun se po' votà". Calenda e il romanesco
Il leader di Azione incontra la premier Giorgia Meloni per discutere della legge di Bilancio. "Abbiamo parlato nel merito delle nostre proposte", ha detto a un cronista. Scivolando alla fine sul consueto dialetto
I natali nel quartiere Africano, da ben note famiglie dell'alta borghesia intellettuale romana. L'infanzia all’ombra del Cupolone e il trasferimento sulla Salaria, a Prato della Signora. Poi il liceo Mamiani (okkupato!). A chi gli dà di Pariolino, lui risponde di non avere bazzicato troppo, in quegli anni adolescenti, piazza Euclide e la sua borghesia benestante e rivendica anzi di avere coltivato amicizie nella borgata Fidene. E forse anche per questo nell'eloquio di solito forbito di Carlo Calenda fanno capolino, alla bisogna, uscite in romanesco.
Non c'è bisogno di rispolverare l'intervista social con Er Faina, al secolo Damiano Coccia, ai tempi della corsa al Campidoglio ("A me la veracità romana me piace, quella del Belli, de Trilussa, quella sboccacciata sublime de Proietti", diceva allora il leader di Azione all'irriverente influencer). Basta tornare a ieri, per esempio, quando dopo l'incontro a palazzo Chigi è stato fermato dai cronisti sotto alla colonna di Marco Aurelio. Quella con Giorgia Meloni è stata "Una discussione assolutamente di merito sui singoli provvedimenti", ha spiegato impeccabile. Per poi svicolare nel vernacolo: "Quota 41 per me nun se po' votà".
Un modo di fingersi vicino alla "gente", come gli imputava, velenosa, Selvaggia Lucarelli sul Fatto? Retaggi da commedia all'italiana, di cui il nonno è stato uno dei massimi interpreti? O aveva solo fatto l'orecchio, dopo il colloquio con la premier, alla calata della Garbatella?