l'intervento
Pensare per la prima volta, da democratico e iscritto, di dire addio al Pd
Il congresso del Pd preoccupa chi ama il Pd. Dove sono visione, identità, orizzonte, base sociale e leadership? Perché non si è chiesto a coloro che si candideranno di redigere un programma di governo che permetta di far emergere i contrasti invece di nasconderli?
Per ragioni ben note l’Italia non ha mai avuto nel dopoguerra un grande partito socialdemocratico. Un partito che esprimesse un’accettazione convinta dei principi base di uno stato liberal-democratico e in particolare del mercato e della libertà di impresa, da regolare in modo che le diseguaglianze ingiustificate che il neoliberismo provoca possano essere corrette. E che lo possano essere lo dimostra la fase di liberalismo inclusivo a dominanza socialdemocratica nei trent’anni successivi al secondo dopoguerra. Dopo l’abbattimento del muro di Berlino sembrava fossero maturate le condizioni idonee alla creazione, anche in Italia, di un partito di questo genere, sommando insieme le forze politiche di ispirazione riformista di sinistra rimaste in campo dopo la crisi politica provocata da Mani Pulite. Di tutte tranne una - e fu un’esclusione deliberata - quella del Partito Socialista, i cui votanti, attivisti e dirigenti si dispersero o rifluirono in altri partiti.
Da queste vicende ha origine quell’“amalgama mal riuscito” che denunciò (e contribuì a far riuscir male) Massimo D’Alema a proposito del Partito democratico, ma che caratterizzava anche le trasformazioni del Pci dopo la svolta, il cambiamento del nome in Pds e poi Ds. Un partito socialdemocratico conosce da sempre tensioni interne, da ultimo dovute a diverse “letture” di quanto è indispensabile concedere alle imprese private affinché queste siano invogliate a investire, innovare e garantire una sostenuta crescita economica, necessaria ai fini di un continuo miglioramento delle condizioni di vita dei ceti più poveri. Una lettura più preoccupata, cauta e gradualistica e una lettura più aggressiva, che porta spesso le tracce della vecchia ostilità anticapitalistica che molti dei suoi sostenitori ancora condividono. È mia convinzione che in un partito socialdemocratico queste due letture possano coabitare, sviluppando argomenti realistici e razionali a proprio sostegno. E in un contesto di fiducia reciproca non sarebbe la fine della socialdemocrazia se a volte prevalesse una lettura, altre volte l’altra: è quanto avvenuto in Gran Bretagna col passaggio da Corbyn a Starmer. L’importante è non produrre correnti stabili, che si battezzano ideologicamente come “destra” e ”sinistra” ma in realtà sono cordate di potere, e sono tentate dal costituirsi in partiti autonomi se esse non risultano al momento vincenti. Questo è quanto è avvenuto in Italia.
È appena partita la procedura del congresso e poco lascia sperare che essa si concluda con un nitido chiarimento interno, che renda compatibile (anzi, necessaria) la presenza nel partito delle due “letture” di cui dicevo, entrambe richieste affinché un partito possa definirsi socialdemocratico. Questo già lo si capiva leggendo le deliberazioni dell’assemblea nazionale di sabato 19 novembre e qui mi limito a trascrivere alcuni appunti che mi ero segnati il giorno dopo.
(a) Il modo in cui verrà redatto il “Manifesto dei valori e dei principi” lascia la scelta di coloro che lo redigeranno nelle mani degli attuali dirigenti del partito, e l’assicurazione che “la scelta dei membri rispetterà i principi della parità di genere e del pluralismo” (leggi, del peso relativo delle attuali correnti interne) condurrà a una commissione pletorica e ad ambigui compromessi verbali, laddove sarebbe stata necessaria la massima chiarezza. (b) Chi avrà il diritto di partecipare al percorso costituente? Ovviamente chi è già iscritto al Pd e i cittadini che ne fanno richiesta “sottoscrivendo l’appello con una adesione certificata”, ma anche “gli iscritti ai partiti e ai movimenti politici, alle associazioni e ai movimenti civici che con deliberazione dei propri organismi dirigenti aderiscano al processo costituente”.
Dunque, in astratto, un qualsiasi partito X può partecipare al processo costituente tramite i suoi iscritti, i quali – nel caso il partito X non si sciolga – disporranno di una doppia tessera. Nessuno scandalo, ma non si poteva trovare un modo più semplice per allearsi stabilmente o fondersi con Articolo uno? Che Renzi o Calenda siano interessati ad avvalersi di questa “opportunità” e l’attuale dirigenza del Pd sia disposta ad accettarli mi sembra al momento un’ipotesi lunare. (c) Il nucleo programmatico del congresso si svolgerà poi in quasi due mesi di discussioni nei circoli e in altri contesti assembleari, in cui i partecipanti “saranno chiamati a esprimersi su una serie di nodi politici essenziali che dovranno riguardare i valori fondanti, la missione, la forma partito e le modalità di organizzazione dell’attività politica, la proposta politica del partito. A tale scopo la segreteria nazionale mette a punto strumenti che facilitino la partecipazione e la discussione nei circoli e consentano l’espressione della volontà di ogni singolo aderente al percorso, anche attraverso la promozione di assemblee aperte”. E qui non c’è bisogno di commenti. (d) La fase costituente si conclude con l’elezione dell’assemblea nazionale costituente che approva il testo dei valori e dei principi. Seguono poi le candidature alla segreteria nazionale, il confronto tra i candidati e il voto nei circoli sia degli iscritti, sia di chi ha aderito al nuovo Pd iscrivendosi alla fase costituente. Da ultimo, il 19 febbraio, il ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto più voti, e con questo dovrebbe concludersi il congresso di rifondazione. Tutto impeccabilmente partecipativo e democratico, nevvero?
Di troppa democrazia (manovrata) si può morire, tuttavia. Che cosa ci assicura che il censimento delle disparate opinioni degli iscritti (cioè dei più militanti sostenitori del Pd attuale) e dei (pochi? tanti?) esterni che troveranno interessante partecipare al percorso costituente sarà in grado di identificare le cause che rendono così insidiosi, ideologici e correntizi i contrasti che oggi appannano l’identità socialdemocratica del partito? Visto che i dirigenti proclamano che la nuova (?) identità del Pd dovrebbe essere cercata in un programma di governo che affronti le ingiustizie e le inefficienze dell’Italia di oggi, non sarebbe stato più opportuno partire dai programmi e non da un manifesto dei valori che non sarà in grado di discriminare tra posizioni politiche diverse?
A me sembra che sarebbe stato più opportuno (e semplice) chiedere a coloro che si candideranno a dirigere il partito un programma di governo sufficientemente dettagliato, dal quale risultasse con chiarezza come essi/esse pensino sia possibile – utilizzando le migliori analisi disponibili sulle condizioni economiche e sociali nelle quali il nostro paese si trova – coniugare oggi crescita economica e giustizia sociale, i due obiettivi fondamentali di un partito socialdemocratico. Insomma, far emergere i contrasti invece di nasconderli. E confrontarli apertamente in contraddittorio. Se i contrasti emergono da analisi su situazioni di fatto – certo controvertibili, ma sulla base di un confronto razionale – essi risulterebbero meno dannosi di conflitti ideologici tra “destra” e “sinistra” (si fa per dire) e meno suscettibili di congelarsi in correnti stabili.
Non mi resta dunque che aspettare le candidature alla segreteria nazionale, sperando che quella che prevarrà e il programma uscito vincente nella tortuosa procedura che ho appena descritto, mi convincano a restare nel Partito democratico. Può ancora avvenire, date le grandi risorse umane di cui il Pd dispone. O potrebbe avvenire per caso, o per calcoli sbagliati delle correnti. Al Partito democratico ho dedicato molti anni di attività intellettuale e politica e per ora faccio fatica a vedere nei due piccoli partiti del Terzo Polo – oggi un serio concorrente del Pd nell’area del centrosinistra – lo strumento necessario non solo ad abbattere gli ostacoli che si frappongono alla crescita economica, ma anche a contrastare le intollerabili diseguaglianze sociali che affliggono il nostro paese, l’altro grande obiettivo di un vero partito socialdemocratico.
Sono passate quasi due settimane dall’assemblea nazionale, ma le preoccupazioni che avevano suscitato in me le sue conclusioni non sono state smentite da quanto è avvenuto dopo di allora: di “nuovo” vedo ben poco nel Pd che sta affrontando il congresso. Spero di sbagliarmi.