Europa (e realtà): tre stress test per il governo Meloni
Che fare con l’Ungheria di Orbán. Come agire su contanti e pensioni di fronte alla Commissione Ue. Ratificare o meno il trattato del Mes. Da qui si vedrà se Meloni avrà il coraggio di essere magnificamente incoerente con le irresponsabili promesse del passato
Si scrive Europa, si legge realtà. Sulla traiettoria del governo, di qui alle prossime sei settimane, ci sono almeno tre test interessanti che vale la pena monitorare, per capire fino a che punto il governo della coerente Meloni avrà il coraggio, e la faccia tosta, di essere magnificamente incoerente con alcune irresponsabili promesse del passato. Il primo test, simbolicamente cruciale, è quello che riguarda la scelta che farà il governo Meloni con l’Ungheria di Viktor Orbán. Mercoledì scorso, come sapete, la Commissione europea, nello stesso giorno in cui ha sbloccato i fondi per il Pnrr dell’Ungheria, ha scelto di confermare la sospensione del 65 per cento degli impegni presi dalla stessa Unione europea con l’Ungheria nell’ambito delle così dette politiche di coesione. Sintesi estrema: a causa di una serie di inadempimenti dell’Ungheria relativi ad alcune misure correttive concordate con l’Unione europea sul tema del rispetto dello stato di diritto, il paese guidato da Orbán si ritroverà ora con circa 7,5 miliardi di euro di fondi europei bloccati alle frontiere. E per confermare questo blocco, proposto dalla Commissione, il governo Meloni dovrà passare dalla fase dei tweet a quella delle scelte e dovrà decidere, al Consiglio europeo del 19 dicembre, dove la proposta della Commissione verrà votata a maggioranza qualificata, da che parte stare. Con l’Europa o con Orbán?
Il secondo test, molto delicato, è quello che riguarderà, nei prossimi mesi, il rapporto del governo Meloni con la Commissione europea. Il primo incontro a Bruxelles con i vertici delle istituzioni europee, come è noto, è stato ottimo per Meloni, e anche la manovra nei fondamentali non ha tradito le attese, ma ci sono almeno due fronti interessanti, e scivolosi, sui quali il governo italiano e la Commissione europea potrebbero incrociare le lame e Meloni sa quanto sia pericoloso, rispetto al tema della quiete dei mercati, aprire un fronte di tensioni economiche con le istituzioni europee. La Commissione europea, che in questi giorni sta studiando l’iter del Pnrr, da un lato è preoccupata che il governo di centrodestra possa indebolire uno strumento che negli ultimi anni ha aiutato l’Italia a combattere l’evasione fiscale, ovvero la fatturazione elettronica, un caposaldo del Pnrr, e per capire la preoccupazione della Commissione è sufficiente rileggere cosa diceva fino a qualche tempo fa Meloni sul tema della fatturazione elettronica, che impone a tutti i titolari di partita Iva che erogano servizi a privati e imprese di comunicare digitalmente al fisco tutto ciò che si fattura.
Diceva, Meloni che si tratta di “un passo verso il grande fratello fiscale”, di “un’enorme perdita di tempo per chi lavora” e, prometteva Meloni, quando Fratelli d’Italia sarà al governo “chiederà che la fatturazione elettronica sia obbligatoria solo per prestazioni di importo superiore a 10 mila euro”. La logica è sempre quella: fare un passo indietro nelle politiche utili a combattere l’evasione fiscale e creare le condizioni affinché chi vuole possa trovare un modo per evadere le tasse, alzando il tetto all’uso dei contanti, alzando il tetto sotto il quale gli esercenti possono rifiutarsi di utilizzare il Pos, alzando il tetto sotto il quale la fatturazione elettronica non è cosa buona e giusta. Il secondo fronte, che comprensibilmente preoccupa la Commissione europea, riguarda l’attenzione, o meglio l’ossessione, della destra per tutto ciò che riguarda le pensioni. La riforma delle pensioni introdotta nell’ultima legge di Bilancio, Quota 103, che sul triennio costa 500 milioni di euro in più rispetto alla Quota 102, più che un problema economico, sul contingente, indica un problema potenziale, di segnaletica. E la questione, anche qui, è drammaticamente semplice: che tipo di affidabilità può offrire l’Italia, rispetto alla gestione del suo debito pubblico, se una parte del suo debito continua a essere spesa per accorciare l’età pensionabile in un contesto all’interno del quale l’Italia, che è tra le nazioni dell’Ocse quella che spende di più in spesa previdenziale, il 15,64 per cento, nei prossimi tre anni dovrà già farsi carico di una spesa aggiuntiva di 50 miliardi legata al meccanismo di indicizzazione delle stesse pensioni? E dunque la questione è chiara: fino a che punto si spingerà il governo sovranista per spendere i pochi soldi che ha a disposizione in politiche finalizzate a coltivare più la crescita del consenso, dei propri partiti, che la crescita dell’economia del proprio paese?
Il terzo terreno cruciale su cui si misurerà l’affidabilità del governo di centrodestra ha a che fare con tre lettere divenute negli anni il simbolo di tutto ciò che la destra ha dimostrato di detestare: il Mes. La storia, qui, è a metà tra il ridicolo e lo spassoso. Per anni, Salvini e Meloni, spalleggiati dal Movimento 5 stelle, hanno descritto il Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, come uno strumento del demonio europeo. Tesi dei populisti: il Mes potrebbe sì permetterci di avere altri soldi aggiuntivi da utilizzare, soldi presi in prestito con un tasso di interesse inferiore rispetto alle emissioni di debito pubblico, ma il Mes presenta una serie di condizionalità atroci, che trasformerebbero i paesi desiderosi di beneficiarne in sudditi dei burocrati europei. Sulla base di questo sofisticato ragionamento, così sofisticato che la Lega e il M5s hanno votato a favore di un finanziamento europeo, il Pnrr, che presenta condizionalità molto più stringenti per i paesi desiderosi di beneficiare di quei fondi, l’Italia, a causa della sua forte componente populista presente in Parlamento, ha sempre trovato una scusa per non ratificare il trattato. I nodi però ora arriveranno al pettine e arriveranno al pettine proprio nella stagione in cui a governare l’Italia ci sono i principali rivali del Mes: Lega e Fratelli d’Italia. Con grande spirito patriottico, negli ultimi giorni, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha detto di volersi esprimere sulla ratifica del Mes solo dopo che avrà dato il suo responso la Corte costituzionale tedesca, presso cui è pendente un ricorso contro la legge di ratifica del trattato del Mes.
Potremmo sorvolare sul fatto che il patriottico governo dei patrioti abbia di fatto affermato, mostrando imbarazzante subalternità, di voler prendere alcune decisioni che riguardano l’Italia solo dopo aver capito cosa farà la Germania. Ma il dato più interessante è che, nell’indifferenza generale, tranne che di questo giornale, da pochi giorni il Mes, dopo sei mesi di attesa, ha finalmente il suo nuovo numero uno. Si tratta di Pierre Gramegna, che dal 25 novembre è il nuovo direttore generale del Mes, e che nella sua lettera di presentazione della candidatura, come raccontato da Valerio Valentini sul Foglio, ha dichiarato quanto segue: “Il mio primo e principale obiettivo sarà di accompagnare la piena ratifica e la conseguente attuazione del pacchetto di riforme del Mes”. Dato che sarebbe scontato, quasi indifferente, se non fosse che tra i paesi che hanno scelto di sostenere la candidatura del dottor Gramegna ce n’era uno particolare. Uno governato da una premier donna e da un ministro leghista. Dal Mes al Pnrr passando per Orbán. Il filo conduttore è sempre quello. Si scrive Europa, si legge realtà.