Un Pd a vocazione minoritaria
Un partito che sceglie di rimuovere tutto ciò che gli ha permesso di avvicinarsi alla vittoria è un partito che sceglie di trasformare le primarie in concorsi di bellezza. Perché prendere sul serio la magnifica sfida tra Bonaccini e Schlein
Ci sono buone ragioni per osservare con un pizzico di diffidenza, di noia e di scetticismo il dibattito che si è aperto nel Pd rispetto al suo futuro. Ci sono buone ragioni per chiedersi se il Pd, oggi, in una stagione dominata dalle identità forti e dalle leadership carismatiche, possa avere una qualche prospettiva, non avendo al momento, a sua disposizione, né identità forti né leadership carismatiche. E ci sono buone ragioni, infine, per chiedersi se il futuro del Pd, come capita spesso da dieci anni a questa parte ogni qualvolta il Pd cerca di riprendersi da una sconfitta, e a volte anche da una vittoria, non sia ormai definitivamente segnato e se la sua esperienza, in altre parole, non sia a un passo dall’imboccare la poco gloriosa strada in cui si è ritrovato il poco fortunato Partito socialista francese (disastro, che in francese, ironia della sorte, si scrive così: “Un sinistre”).
Eppure, nonostante queste premesse, il tema di fondo del congresso del Pd, partito che ha circa 50 mila amministratori locali e che a naso potrebbe avere una vita molto più lunga rispetto a quella dei partiti che sognano la sua estinzione, merita di essere preso sul serio, senza ironia, perché la sfida tra Stefano Bonaccini ed Elly Schlein è quanto di meglio il Partito democratico possa offrire oggi per definire la sua identità. Da un lato, come dice un vecchio saggio del Pd, c’è una leadership promettente, come quella di Elly Schlein, che ha scelto di offrire al Pd una piattaforma programmatica vaga, a metà tra il corbynismo e il sandersismo, interessata più ai diritti che ai doveri, ancorata ai simboli di una sinistra movimentista, movimentista al punto di essere pronta a rinnegare la stagione di responsabilità atlantista del Pd, che come suo primo obiettivo ha quello di considerare sostanzialmente di destra, anzi di destra neoliberista, buona parte del passato recente del Pd (lo schema è sempre lo stesso: se sei popolare e piaci anche agli elettori non di sinistra significa che sei di destra). Dall’altra parte, invece, c’è una leadership rassicurante, come quella di Stefano Bonaccini, una leadership che cerca di intercettare il filone vincente dei leader appartenenti alla così detta “soft left”, da Olaf Scholz a Keir Starmer, fino a Joe Biden, leader non esattamente carismatici, anche se con storie magnifiche, interessati a offrire agli elettori più un senso di protezione, di calma, di giusto posizionamento nel mondo, che un’idea di rivoluzione, di tensione, di ansia, di rottura.
Ci sono alcuni paradossi interessanti, nella sfida tra Bonaccini e Schlein, e il più significativo appare essere quello di avere un leader che ha navigato tra le correnti, come Bonaccini, che oggi è di fatto il candidato anti correnti, pur essendo sostenuto anche lui da una corrente importante, e una leader che ha fatto della battaglia contro il correntismo del Pd un suo cavallo di battaglia (Schlein è diventata nota quando si fece politicamente esplodere all’indomani dei 101 che sabotarono la candidatura di Romano Prodi al Quirinale) mentre oggi, suo malgrado, forse, è diventata la foglia di fico del vecchio correntismo del Pd (le correnti che di solito un leader possibile del Pd detesta sono quelle che non lo appoggiano alle primarie). In buona sostanza, Bonaccini e Schlein incarnano una lotta interna alle sinistre che è la stessa che vivono le sinistre di tutto il mondo ma l’impressione che si ricava dall’osservazione dei due profili, che sono due profili importanti essendo il Pd il partito che si candida a essere il perno della futura coalizione che tra cinque anni sfiderà l’attuale maggioranza di governo, è che solo la candidatura di Bonaccini contempla la possibilità che il Pd, nel futuro, possa continuare a fare quello che serve al centrosinistra per tornare vincente: costruire un Partito democratico intenzionato a muoversi come pivot di una possibile coalizione futura, nella consapevolezza che se il Pd rinuncia a una gamba della coalizione sceglie di rinunciare al suo ruolo, sceglie di schiacciarsi verso una posizione pericolosa non perché più di sinistra ma perché più desideroso di parlare a una piccola fetta di elettori rinunciando ad aprirsi anche a chi oggi si sente distante dal Pd.
Da questo punto di vista, Elly Schlein, sostenuta da un fronte politico interno al Pd che considera necessario bollare come di destra tutte le stagioni di maggiore popolarità vissute dal Pd, dal 33 per cento di Walter Veltroni al 40 per cento di Matteo Renzi, sembra voler avallare la teoria che il Pd per essere un amalgama ben riuscito, citazione dalemiana, debba estirpare la sua suggestiva stagione di possibile trasversalità e debba entrare con urgenza nella stagione della nobile difesa della rendita. Mossi dalla consapevolezza che ciò che sia prioritario, nella nuova identità, sia avere ben chiari non quali sono gli obiettivi di crescita ma quali sono i nemici da combattere. La visione di Schlein, che a suo modo, nello stile, non nelle affiliazioni, potrebbe essere considerata anche una rottamatrice di sinistra, presenta infine un problema ulteriore che ha a che fare con la volontà di non rispondere a una domanda semplice, divenuta però urgente nella stagione delle trasformazioni meloniane.
E la questione, che abbiamo già affrontato, è questa: ma una sinistra che ha costruito la sua opposizione alla destra scommettendo sulla lotta contro il fascismo e sulla battaglia contro il neoliberismo cosa farà quando si renderà conto che essere fascisti e neoliberisti è una contraddizione politica e culturale e quando si renderà conto che la destra sovranista oltre a non essere fascista, almeno si spera, non farà nulla per essere amica del neoliberismo?
Il congresso del Pd merita di essere preso sul serio. Nessuna delle candidature merita di essere liquidata con un superficialità. Ma un tema meriterebbe di essere affrontato da entrambi i candidati. Un partito che ha scelto di voler rimuovere tutto ciò, che nel passato, gli ha permesso di avvicinarsi alla vittoria è un partito che ha scelto di trasformare le proprie primarie in un concorso di bellezza. E quando le primarie diventano un concorso di bellezza, di solito i partiti piuttosto che occuparsi del futuro tendono a occuparsi esclusivamente del passato e tendono a non capire che quello che loro definiscono un ritorno alle origini coincide con le due parole destinate a uccidere un partito: la vocazione minoritaria.