Perché non bisogna avere paura dell'autonomia differenziata

Gianluigi Bizioli 

Le critiche alla bozza di ddl sono rivolte alla presunta lesione dei valori fondamentali che connotano la Repubblica, in particolare  l’unità e l’eguaglianza dei “cittadini”. Ma si rivelano del tutto infondate

Il dibattito politico e giuridico che si è scatenato intorno alla bozza di ddl per l’attuazione dell’articolo 116, comma 3, della Costituzione relativo all’autonomia differenziata, similmente alle reazioni provocate dai precedenti tentativi nello stesso senso, richiede di ritornare sui valori fondanti della Costituzione italiana (e, solo alla luce di questi, leggere l’autonomia differenziata e la bozza di ddl). Ciò perché le critiche non sono rivolte (esclusivamente) alle materie che possono essere attribuite o all’oggettivo impatto del trasferimento delle materie sul sistema di finanza pubblica dello stato, bensì proprio alla presunta lesione dei valori fondamentali che connotano la Repubblica, in particolare, l’unità e l’eguaglianza dei “cittadini”.

  
E’ innegabile la constatazione che la nostra Carta sia fondata sopra i valori dell’eguaglianza e dell’autonomia. Sul primo molto è stato scritto, soprattutto in relazione alla trasformazione del principio di eguaglianza che l’assunzione di sempre nuove funzioni pubbliche ha prodotto nel secondo dopoguerra. In questo contesto, la Repubblica non si limita a riconoscere l’eguaglianza formale degli individui (come originata dalle rivoluzioni americana e francese), bensì ha l’obbligo di promuovere le condizioni per realizzare il pieno sviluppo degli stessi all’interno della comunità.

 
Si è molto scritto anche dell’autonomia degli individui, sia come persona sia nelle formazioni sociali. La Repubblica prende atto che l’individuo pre-esiste rispetto all’organizzazione pubblica, sia nella dimensione individuale sia nella dimensione collettiva, riconoscendo l’inviolabilità dei diritti (individuali e collettivi) unitamente ai doveri inderogabili di solidarietà.

 
La rappresentazione tradizionale, diversamente, ha trascurato il valore dell’autonomia territoriale. Non intendo sostenere che tale valore non sia stato indagato sufficientemente – basti pensare alle pagine magistrali di maestri quali Feliciano Benvenuti, Giorgio Berti e Mario Bertolissi –, bensì che sia stato collocato in una posizione recessiva rispetto all’eguaglianza e all’autonomia degli individui. Per un verso, la maggioranza della letteratura (e della giurisprudenza costituzionale) concorda che l’autonomia dei territori deve essere intesa quale potere di autogoverno delle comunità nell’ambito delle competenze loro attribuite dalla Costituzione. E, alla luce di questa assunzione, è logico concludere che l’autogoverno generi differenza fra i territori, coerentemente alle differenze fra le comunità localizzate sul territorio nazionale. Per altro verso, tuttavia, l’autonomia territoriale è stata (contraddittoriamente) dagli stessi attori subordinata, o comunque fortemente “normalizzata”, nell’alveo del principio dell’eguale trattamento di tutti gli individui (e delle formazioni sociali).

  
Sul piano dell’attuazione, l’esito di questa ricostruzione teorica è stato paradossale poiché la produzione di una legislazione formalmente eguale per tutto il territorio statale (al pari di quanto fatto immediatamente dopo l’unificazione del Regno d’Italia) non si è tradotta nella promozione dell’eguaglianza sostanziale dei diritti per tutti i cittadini insediati sul territorio statale.

 
Questa situazione ha trovato una significativa eccezione nell’autonomia speciale, che si è tradotta – fin dall’origine – in maggiori competenze gestite da singoli territori (e singole comunità territoriali) e congruità, certezza e stabilità delle risorse finanziarie per poter perseguire gli obiettivi dell’autogoverno.In conclusione:
i) il disegno costituzionale originario era fondato sui valori dell’eguaglianza dei “cittadini” e sull’autonomia degli individui e dei territori;
ii) questo disegno e, in particolare, la vera novità costituzionale rappresentata dal riconoscimento dell’autonomia locale come valore fondamentale della Repubblica, è stato svalutato dalla letteratura giuridica e dal processo di attuazione legislativa, riducendo le regioni a ente amministrativo dello stato;
iii) l’autonomia regionale è stata intesa, fin dall’origine, come differenziata, riconoscendo la specialità di taluni territori.


Leggere il ddl Calderoli alla luce di queste considerazioni consente, per un verso, di respingere al mittente gli strali e le grida di parte del mondo politico e accademico e, per altro verso, di porre il progetto nel corretto contesto costituzionale. Quanto al primo profilo, il progetto di attuazione dell’autonomia differenziata non rappresenta né una violazione né un vulnus al limite assoluto dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica sancito dallo stesso articolo 5 della Costituzione. Riconoscere l’autonomia dei territori significa riconoscere l’esistenza di una differenza fra gli stessi che deve trovare riflesso nel potere di autogoverno. Spesso si dimentica che la valorizzazione dell’autonomia delle comunità territoriali assume la medesima dignità costituzionale del principio dell’eguaglianza degli individui e, comunque, che  tutte le regioni devono garantire “i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti e sociali” e, nel caso in cui queste non vi provvedano, allo stato è attribuito il potere sostitutivo (articolo 120, comma 2, della Costituzione). Quest’ultima previsione consente di realizzare il corretto bilanciamento fra l’eguaglianza dei cittadini e l’autonomia dei territori.


Quanto al tema delle risorse finanziarie, a cui è dedicato l’art. 4 del ddl Calderoli, la Costituzione richiede che il trasferimento delle competenze debba avvenire nel “rispetto” dell’articolo 119 della Costituzione. La lettura più lineare è che le predette competenze siano “integralmente” finanziate attraverso le fonti previste dall’articolo 119. In linea teorica, dunque, si dovrebbe regionalizzare la spesa statale impiegata per finanziare le risorse trasferite e individuare il gettito da attribuire alle regioni. Una sorta di partita di giro dal Bilancio dello stato a quello delle regioni, senza vantaggi per le autonomie differenziate e senza perdite per le altre regioni.


In concreto, la scelta del metodo con cui misurare la spesa statale trasferita e la scelta delle fonti non è neutrale rispetto alla promozione dell’autogoverno dei territori. L’articolo 4, comma 1, della bozza commisura le risorse finanziarie, umane e strumentali da trasferire alla “spesa storica”, sebbene tale criterio debba essere superato a favore di quello basato sui costi e sul fabbisogno standard. Quest’ultimo criterio dovrebbe avvantaggiare le regioni più efficienti, ovverosia quelle la cui spesa effettiva dovesse risultare inferiore rispetto ai costi e fabbisogni standard, coerentemente con il principio di responsabilità e governo della cosa pubblica che caratterizza l’autonomia locale.


Molto più generica appare la disposizione relativa alle fonti finanziamento, individuate nella “riserva di aliquota o [nel]le compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale” (articolo 4, comma 2, del ddl Calderoli). La scelta di escludere i tributi propri regionali dal novero delle fonti di finanziamento è stata obbligata dalla rigidità della legge delega sul federalismo fiscale del 2009 che vieta la sovrapposizione fra tributi regionali e tributi erariali, lasciando quindi pochi spazi percorribili per le regioni. Le riserve di aliquota appaiono più adeguate alla promozione di una piena autonomia finanziaria perché non risentono di eventuali modifiche di aliquota a livello statale (mentre, naturalmente, risentono di cambiamenti alla base imponibile). In realtà, il vero problema del finanziamento attraverso le riserve di aliquota o le compartecipazioni è proprio la stabilità (e, quindi, la certezza) delle risorse, che tuttavia dovrebbero essere garantite dal particolare procedimento approvazione dell’autonomia differenziata.


In conclusione, i timori sollevati – con toni, a volte, francamente inaccettabili – si rivelano del tutto infondati e conseguenza della cultura formatasi a partire dall’unificazione di appiattimento della legislazione verso l’ideale dell’eguaglianza formale a scapito della vivacità delle diverse comunità territoriali.
 

Gianluigi Bizioli 
Università degli studi di Bergamo