L'editoriale
Il caso Ilya Yashin, un monito per i nostri bravi negazionisti
Yashin ha scelto di affrontare un processo a Mosca per aver sostenuto che a Bucha sono stati commessi dei crimini di guerra, gli stessi che alcuni commentatori italiani avevano messo in dubbio. E’ arrivato per loro il momento di rinnegare quei giudizi
C’è stato un momento, dopo la carneficina di Bucha commessa in ritirata dalle forze russe in Ucraina, alle porte di Kyiv, di morboso negazionismo italiano. Una serie di giornalisti, osservatori e commentatori ha pensato di doversi schierare contro una versione ufficiale dei media e delle autorità ucraine e occidentali. Molti hanno speculato sulla postura dei corpi dei morti ammazzati, suggerendo un trucco cinematografico, tutti, compresi i pochi di cui si può presumere la buona fede, si sono sentiti una minoranza che non accetta in guerra alcuna verità ufficiale, hanno pensato di avere assunto un comportamento non conformista e hanno disprezzato in nome del dovere del dubbio foto, testimonianze, racconti che dicevano l’evidenza.
E’ arrivato per loro il momento di rinnegare quei giudizi, di riconoscere l’assurdità, in questo caso, della loro pretesa intellettuale e morale di avversare una verità combattente di stato e del circuito mediatico libero d’occidente.
Quelle opinioni hanno circolato generosamente su schermi e giornali, le reazioni sono state considerate intimidazioni di chi a tutti i costi voleva senza sforzo e senza dignità bersi una scarica di propaganda bellica. Ora è successo che in Russia un oppositore di Putin e della guerra, Ilya Yashin, ha apertamente denunciato, sapendo di dover pagare un alto prezzo, la sua libertà, quello che i nostri negazionisti mettevano in questione senza che da loro fosse richiesto alcun pegno, alcuna rinuncia anche la più piccola. Yashin ha scelto di non andarsene in esilio e di affrontare un processo a Mosca per aver sostenuto che a Bucha sono stati commessi dei crimini di guerra. Il processo si è concluso come non poteva non concludersi, con la sua condanna a nove anni di carcere, condanna esemplare, per aver fatto affermazioni, come riferisce Anna Zafesova, “difformi da quanto sostenuto dallo stato maggiore dell’esercito russo”, e di averlo fatto anche citando informazioni desunte dai media occidentali. In un residuo piccolo spazio su YouTube, nonostante e contro la legge di emergenza che minaccia anni di galera verso chi dissente dalle versioni ufficiali di Putin sull’operazione speciale in Ucraina, Yashin aveva parlato delle stragi e aveva scelto di mettere a fuoco le responsabilità delle stragi.
Chi tra i negazionisti italiani tenga non dico al proprio onore o alla propria dignità, ma almeno alla credibilità di quel che ha detto, dovrebbe ovviamente riflettere sul costo pagato da un dissidente russo per aver affermato quanto loro si sono sforzati di negare, rivendicando come gesto di indipendenza gli occhi chiusi di fronte all’orrore. Non è difficile. Basta pensare a nove anni di carcere, al destino di un trentenne coraggioso, al suo legame con l’oggettività, con l’accaduto, e con le fonti che lo hanno rivelato. Basta districarsi nel narcisismo dell’anticonformismo, se non proprio fare un esame di coscienza, e scegliere di cambiare strada, per una volta ammettendo l’errore nella valutazione di fatti e documenti che non possono esser considerati secondo le indicazioni dello stato maggiore dell’esercito russo, a meno di non voler essere complici dei giudici e dei procuratori che hanno deciso di comminare quasi un decennio di reclusione per l’opinione libera di un oppositore del regime.