passati problematici
Di Stefano gonfia il suo cv per cercare lavoro. L'epopea del grillino che amava Putin
L'ex sottosegretario su LinkedIn si autoproclama (postumo) viceministro degli Esteri. Una tendenza che richiama altri esempi nei 5 stelle. Ma il Nostro nella sua storia politica ha dietro di sé una dichiarazione di amore eterno al Cremlino
La svista, prendiamola così, non rileva ai fini della cronaca politica, dacché il diretto interessato è ormai un privato cittadino. Ha però a che vedere, semmai, con la commedia umana del grillismo che fu, che poi rinnegò se stesso per poter sopravvivere, infine adotta simpatici stratagemmi per reinventarsi. Ecco allora che Manlio Di Stefano, a lungo fedelissimo di Luigi Di Maio alla Farnesina, nell’ansia comprensibile di ricollocarsi aggiorna i suoi profili social. Del resto, al capo Giggino un posto, Tajani permettendo, glielo sta trovando l’Europa, come inviato speciale nel Golfo.
Di Stefano deve arrangiarsi come può. Ed ecco, allora, che la sua biografia su LinkedIn recita: “Former deputy minister of Foreign Affairs of Italy”. Una promozione postuma autocertificata, insomma, dacché il Nostro viceministro non lo è mai stato: al massimo, s’è fermato al ruolo di sottosegretario.
È il fascino discreto del potere, si sa: lo si accarezza per un attimo, e ci si resta affezionati per la vita. D’altronde pure Michele Geraci, altro eroe della Lega filocinese ai tempi della Via della Seta e del Conte I, da anni si qualifica su Twitter con la pomposa dicitura di “Prof Michele Geraci, former Undersecretary of State”. Col che dimostrando, insomma, che aveva ragione Stendhal sui parvenu, sul fatto che il loro odio per la grandi tavole imbandite dell’alta società si spiegano perlopiù col fatto che loro, in quelle tavole, sono costretti ai margini, smaniando poi di trovare un posto più onorevole.
Ma inevitabilmente la faccenda richiama, sia pure in piccolo, una lunga sequela di mezze mistificazioni grilline in tema di candidature: dal currilucum ritoccato di Rocco Casalino, che s’era accreditato un master in un’università americana che negava di averlo mai avuto tra i suoi banchi, fino ai programmi elettorali del 2018 che il M5s aveva sottoposto al voto degli iscritti, salvo poi modificarli alla bisogna all’indomani delle elezioni per renderli meno sconvenienti a una aspirante forza di governo. Una storia di promesse e ravvedimenti, di folli battaglie e di abiure, che proprio Di Stefano ha vissuto in corpore vili, e non solo perché di una parte di quel programma scancellato e riscritto – la parte sugli esteri – era il responsabile.
Era lui, infatti, Di Stefano, che nel giugno 2016 correva a Mosca per intervenire al congresso di Russia Unita, il partito di Putin, e dichiarare eterno amore al Cremlino, condannando le sanzioni imposte da Europa e Stati Uniti dopo l’annessione illegale della Crimea e spiegando che “a Kiev c’è stato un golpe finalizzato a portare la Nato ai confini con la Russia”. Fu sempre lui, poi, anni dopo, ad assecondare la svolta iperatlantista di Di Maio, rinnegando ogni ammiccamento a Putin, fino al punto di seguire il prode ministro degli Esteri sulla via della scissione. È andata come si sa. E ora, anche Di Stefano, è giusto che trovi la sua strada.