Al Pd serviranno i neoliberisti, non il ritorno agli anni 70
Una serie di cedimenti su vari fronti ha portato alla catastrofe. Non sarà la nostalgia a salvare il partito
Il bivio che si presenterà davanti al nuovo Partito democratico che va a congresso: scegliere se migliorare la società e offrire un servizio di qualità, oppure se interpretare la parte autoconsolatoria e fallimentare dei lottatori di classe. Altre strade non ci sono. Si parta dalla scuola
“In che cosa credevano i riformisti?”, si chiede Alberto Mingardi, sul Foglio dell’8 dicembre. Certo non nel neoliberismo di cui forse non era neppure nato il nome. Credevano di poter costruire, attraverso il Partito democratico, un soggetto nuovo, capace di parlare agli elettori non nei termini del conflitto sociale ma in quelli di una crescita inclusiva. Credevano di avere ragione, e la sinistra pure, nel senso che pensavano di non essere solo dei soprammobili atti ad attirare il voto borghese. Credevo anch’io di avere ragione quando nella campagna elettorale del 1996 andavo nelle sezioni del Pci di Torino Mirafiori a spiegare perché fosse bene per i lavoratori eliminare il famoso articolo 18. Pietro Ichino l’avevo conosciuto alla Società umanitaria di Milano quando presentava “Il lavoro e il mercato, per un diritto del lavoro maggiorenne”. Era l’estate del 1997 quando Carlo Azeglio Ciampi, allora ministro del Tesoro del governo Prodi, mi telefonò per dirmi che avevano convinto Cofferati, e che Telecom Italia sarebbe stata tutta venduta. Era il 2002 quando uscì “Non basta dire NO”, dove raccoglievo i contributi di undici leader della sinistra, da Boeri a Treu, da Ichino a Salvati, da Ranieri a Rossi.
Non basta dire No, non solo a proposito dell’art 18: anche pensioni e professioni, sanità e scuola, liberalizzazioni e controllo societario, continuano a produrre contrasti e lacerazioni: ne eravamo sicuri, “è l’Italia a essere danneggiata rinviando il lavoro delle riforme”. Così come sicuri lo erano Alesina e Giavazzi pubblicando nel 2017 “Il liberismo è di sinistra”, che riprende tesi da loro esposte negli anni precedenti sul Corriere. E’ un dato su cui riflettere: tutte le “bestie nere” che agitano oggi il dibattito congressuale del Pd e suscitano la damnatio memoriae, tutti questi segni di “neoliberismo” insomma, hanno le impronte digitali del Pd. Le nostre. Cosa è andato storto?
C’era Berlusconi, e noi riformisti credevamo di batterlo non con l’antiberlusconismo viscerale del Pd, ma con le sue stesse armi, realizzando le riforme che egli prometteva senza avere né la cultura politica né l’interesse economico per farlo. Non tutti però ne erano convinti: e credo che interpretasse il pensiero dei chierici apostati Barbara Spinelli quando, il 13 gennaio 2006, scriveva essere stato “errore dei riformatori quello di chiedere all’ala sinistra del partito di rinnegare la propria storia”. E cioè: non i borghesi per aiutare la sinistra a vincere le elezioni, ma la forza del proletariato per aiutarli a espellere quel corpo estraneo.
E’ da questa “poca fede” nella forza delle riforme che parte la “trahison des clercs”. Non una singola Caporetto, piuttosto una successione di cedimenti su vari fronti. Il primo che mi viene in mente è il referendum sull’acqua pubblica del 2011: un paradosso perché contro riforme – dall’acqua ai servizi pubblici locali – che il Pd stesso aveva tentato di far passare senza però riuscirci. Su Telecom privatizzata si abbatté una serie di interventi pubblici, da quello della magistratura che indusse Colaninno a passare la mano a Tronchetti, che a sua volta il piano Rovati “convinse” a lasciare, fino all’Openfiber di Renzi, e alla rete unica di Grillo. Su Aspi e il ponte Morandi, rapida fu l’acquiescenza alla “sentenza” di Toninelli. Che il populismo pentastellato abbia incrociato sensibilità antiche è ovvio: quelli che devono preoccupare sono i cedimenti di una borghesia che si crede moderna quando applaude alle iniziative di una Cdp risanata nei conti e rinnovata nelle ambizioni; che gonfia il petto quando la presidente Von der Leyen annuncia di voler fare dell’Europa un “regulatory superpower” che eviti gli eccessi dei Big Tech americani; che applaude un golden power che protegga i nostri gioielli dalle cupidigie dei mercati internazionali. Era stato facile convertire i “comunisti” ad abiurare i dogmi della proprietà pubblica dei mezzi di produzione, adesso ci si umilia a far leva sul tema dell’equità per ottenere dai loro epigoni un sostegno nella querelle tra shareholder e stakeholder value, senza preoccuparsi che questo equivalga a chiedere un aiuto a tagliare il ramo su cui tutti, chierici e catecumeni, stanno seduti.
Per il chierico è più facile “cedere e tradire” se cambiano i riferimenti sociali e i target politici di quelli che considerava suoi alleati. Il Pd del Lingotto puntava all’elettore mediano per conquistare la maggioranza. Adesso, almeno a giudicare dal dibattito congressuale, la vocazione maggioritaria è stata rottamata e l’elettore mediano non solo non viene più cercato, ma è esplicitamente rifiutato. Meglio pochi, puri e perdenti, che un partito plurale e aperto. Oggi il Pd, come scrive Mingardi, sembra vittima della nostalgia degli anni Settanta: vuole di nuovo il voto operaio, in gran parte migrato a destra o verso il M5s, e pretende di conquistarlo con gli slogan di allora. E pazienza se gli operai di oggi sono molti meno di allora e soprattutto se sono cambiati, perché nel frattempo sono cambiate le fabbriche ed è cambiato il mondo cui vanno i loro prodotti. Ma non è cambiata la testa di quei chierici: libertà, mercato e concorrenza, continuano a essere riferimenti imprescindibili. Una, cosa è certa: un Pd siffatto questo paese non riesce né a crescerlo né a sfamarlo. E’ solo la crescita a creare maggiore ricchezza, distribuirla equamente è la parte facile del gioco.
E quindi continuano a volerci quegli altri chierici, i “neoliberisti” tanto per intenderci, se si vuole dare un contenuto alla proposta di governo. In un paese dove “concorrenza” è una brutta parola, dove lo stato non se ne è mai andato da servizi pubblici, sanità, educazione, previdenza; dove la spesa pubblica al netto degli interessi supera metà del Pil, il Pd dovrebbe essere (o tornare a essere?) cosciente che non basta averli come alleati in un futura coalizione di governo, ma come compagni che dall’interno del partito lo innervino del loro pensiero: perché ancora oggi non basta dire No. Una cosa diversa rispetto al fare spazio a “culture e storie politiche diverse” come il Pd ha sempre fatto. Il modello Draghi, non replicabile senza di lui, dovrebbe insegnare a essere meno preoccupati della propria e altrui identità e concentrarsi di più sulle cose da fare.
La scuola ad esempio. Che sia il solo modo per promuovere la crescita nel lungo termine è indiscusso; che oggi i risultati siano pessimi, sia dal punto di vista della qualità che da quello dell’equità. Sia dunque la scuola lo “hic Rhodus, hic salta” del nuovo Pd.
Se la chiave che offre il Pd per interpretare il mondo fosse quella marxista, allora l’enfasi sarebbe tutta su proprietà e gestione dei mezzi di produzione e quindi la scuola verrebbe organizzata avendo in mente gli interessi di chi vi lavora. Se invece la chiave interpretativa è quella riformista, essa andrà organizzata avendo in mente offrire un servizio di qualità agli studenti. Bisogna scegliere da che parte stare: dalla parte degli interessi coalizzati di chi fornisce un servizio, o dalla parte della massa indistinta di chi i servizi li usa. Data la dimensione del settore, cambiamenti radicali non sono implementabili: il Pd deve dunque impegnarsi a condurre una sperimentazione, da estendere successivamente. Sulle scuole pubbliche autonome c’è una vastissima letteratura. Basta qui ricordare che esse garantiscono il diritto costituzionale, non creano scuole elitarie, non aumentano il costo per l’erario, ma aumentano le possibilità di scelta per insegnanti e per famiglie, prendono in considerazione sia i meriti individuali sia le differenze di background geografico e famigliare. In Inghilterra si chiamano Charter School o Academy: il governo inglese ha deciso che devono diventare il cento per cento entro il 2030. Da noi, l’obiettivo di un esperimento che arrivi in cinque anni a un 10 per cento in dieci regioni sembra più che ragionevole.
Una grande sfida: sul piano dei rapporti tra insegnanti e famiglie, tra scuole e territori, tra formazione e lavoro. Potrebbe essere quella atta a definire la scelta, di natura e di obbiettivo, del nuovo Pd: migliorare la società e offrire un servizio di qualità, oppure interpretare la parte autoconsolatoria e fallimentare dei lottatori di classe.